BACK TO MINE

All’inizio del secolo c’era questa collana di album intitolata “Back To Mine“. Band come gli Everything But The Girl, i Morcheeba, gli Orbital, gli Underworld o i Groove Armada apparivano in catalogo producendo quelle che allora si chiamavano compilation di brani altrui mixate insieme secondo il loro personale gusto. Per me erano un piccolo cult personale (ho adorato anche le uscite di Prodigy e Royksopp). Ma in questo post non voglio parlare di musica, era solo il gancio per giustificare il titolo.

Back to mine vuol dire “ritorno alla roba mia“, ritorno a qualcosa che magari avevi un po’ perso per strada e che invece hai improvvisamente voglia di ritrovare, di rivitalizzare. OK, ci metterò sicuramente un po’ a scrivere questo post, che arriva dopo circa 15 anni di tempo “diverso”. Quello che leggete adesso è il frutto di un work in progress mentale che dura da alcuni mesi.

Questo blog è un blog personale. La sua tagline è “cultura generale digitale” perché io sono sempre stato (e mi sono sempre sentito) una sorta di divulgatore di quella che è la digital culture in senso lato e poi sì, sono anche un nerd vecchio stampo, per cui adoro parlare di tutto quanto fa pop culture. Ma è comunque un blog personale.

Io lavoro nel campo da più di 25 anni, praticamente metà della mia vita. Faccio il digital communication specialist (almeno così sta scritto sul mio profilo LinkedIn) e insegno storia dei media digitali. Insegno… diciamo che coinvolgo, fornisco background e scenari per alimentare la curiosità e gli approfondimenti sulla materia. Quindi, OK, forse insegno veramente. Questo aspetto di me non è mai apparso in questa sede perché… non so nemmeno io perché.

A metà degli anni ’90 il web era il fenomeno del momento. Il concetto di ipertesto (che – seppur dato per scontato – ancora oggi mi sembra rivoluzionario nell’approccio ai contenuti) aveva la stessa portata mind blowing che oggi tendiamo a dare alle evoluzioni di OpenAI, di ChatGPT, di Midjourney e Dall-E.

Nel 1999 Douglas Adams (indiscutibilmente uno dei miei spiriti guida) scrive un breve saggio intitolato kubrickianamente “How to Stop Worrying and Learn to Love the Internet“. In questo saggio si inventa le famose tre regole sul nostro rapporto con la tecnologia che grosso modo si possono tradurre così:

1) Tutto quello che si trova nel mondo alla tua nascita è dato per scontato.
2) Tutto quello che viene inventato tra la tua nascita e i tuoi trent’anni è incredibilmente eccitante e creativo e se hai fortuna puoi costruirci sopra la tua carriera.
3) Tutto quello che viene inventato dopo i tuoi trent’anni è un’offesa all’ordine naturale delle cose, è l’inizio della fine della civiltà e solo dopo essere stato in circolazione per almeno dieci anni torna a essere abbastanza normale.
Douglas Adams

Queste tre regole (che ormai puoi trovare su tutti i siti di citazioni e frasi motivazionali un tanto al chilo) sono simpatiche, contengono una grande verità e al tempo stesso sono paradossali, un po’ come tutto quello che è uscito negli anni dalla penna di Adams. Se le applico alla mia esperienza personale, è ovvio che l’ascesa del web negli anni della mia formazione universitaria, tra il 1990 e il 1995 ha pesato molto sulle mie opportunità di carriera. Ho avuto la fortuna di immergermi fino alle punte dei capelli in quel tipo di cultura nonostante arrivassi da un liceo classico e da una scelta universitaria prevalentemente legata all’audiovisivo, al cinema e alla comunicazione pubblicitaria.

Sempre guardando alla mia esperienza personale, ancora oggi che ho più di 50 anni e faccio parte della prima generazione che sta “invecchiando in rete, non ho smesso di essere curioso e di analizzare ogni fenomeno che esce fuori (consapevole che il ciclo dell’hype è sempre più frenetico e famelico). Tra i 22 e i 32 anni ho avuto un sito web in cui immagazzinavo tutto quanto mi piaceva. A 33 anni ho scoperto il web 2.0 e me ne sono innamorato subito. Il web 2.0 mi permetteva di mettermi in gioco personalmente, era una bellissima utopia di come il mondo reale avrebbe potuto essere influenzato e plasmato da quello virtuale (perdonatemi, a quel tempo si faceva ancora questa distinzione ormai inutile).

Questo blog è on line da 20 anni (il compleanno lo festeggiamo al 10 novembre, data del mio primo post). Ma già dopo cinque anni il web 2.0 e la sorpresa insita nel fatto che non scrivevo più “solo per me” ma per un nutrito gruppo di impallinati che come me condividevano la passione per il blogging era un po’ scemata. Il Web 2.0 si stava trasformando in “social web” e prima Twitter, poi Facebook, poi Tumblr, e a seguire Instagram, Pinterest, Snapchat e TikTok hanno cominciato a spezzettare in tanti frammenti sempre più piccoli quell’attenzione che non a caso è protagonista del nuovo modello economico / di marketing prevalente.

Sebbene fossi già ben oltre i 30, mi sono buttato senza esitazioni nel social web, inizialmente convinto che questa potesse essere una “naturale” evoluzione di un web in cui i produttori di contenuto potessero trovare non dico un posto al sole, ma un’opportunità per far sentire la propria voce. Nel giro di una decina d’anni i blogger sono diventati prima youtuber, poi influencer, infine creator. Ovviamente i social (e il loro modello di business, perché ogni social è un’azienda con i suoi ricavi e i suoi bilanci, ma sembra che la maggioranza lo stia scoprendo solo negli ultimi anni) non hanno migliorato il mondo.

O meglio, il nostro utilizzo dei social non lo ha fatto. Perché sappiamo bene che si tratta di strumenti come altri, non dotati di per sé di una propria agenda – ma strumenti cui fare attenzione perché sono, diciamo così, in affitto e non di nostra proprietà.  Strumenti che possono essere facilmente piegati alla generazione di fango, odio, prevaricazione, radicalizzazione.

Se guardo agli ultimi 5 anni, e alla misura in cui la produzione di contenuti per i social è diventata una delle due parti preponderanti del mio lavoro quotidiano (l’altra fetta grossa se la prendono la grafica e i video, spesso comunque declinati in funzione social), mi rendo conto che a poco a poco è cresciuta una disaffezione personale nei confronti delle piattaforme. Oggi non provo più “piacere” a scorrere le timeline. Le notizie – nonostante tutte le vicissitudini decennali che hanno visto Facebook e Google interfacciarsi con il sistema dei media tradizionali – continuo da anni a leggerle sul mio (accuratamente settato) feed reader. Il senso dei social non è nemmeno più “seguire e farti seguire” dai tuoi amici / contatti / affini, ma è sostanzialmente il personal branding. Un concetto che al momento mi pesa più che interessarmi.

Ma ci sono state, nel tempo, delle spie. Ho iniziato a riportare su Facebook le recensioni che scrivevo su Letterboxd (piccolo inciso: Letterboxd è l’unico social che uso costantemente e che trovo utile, anche se molto verticale – se siete lì seguiamoci), solo per il fatto che comunque ho una base di follower sui social di Meta che spiacerebbe bruciare. Ho iniziato poi a raccogliere queste recensioni ogni mese qui sul blog e sul progetto gemello di Medium, che in sostanza è un mirror di questo blog e devo ancora capire se abbia più senso migrare lì e basta oppure no (ma, di nuovo: è una piattaforma proprietaria con le sue regole).

Nel frattempo, molti creator “storici” (chiamiamoli così, sono i miei fellow genxers o in alcuni casi illuminati millennial) hanno iniziato a proporsi come curatori di newsletter. Un mezzo che mi interessa molto ma che non ho ancora mai praticato per due motivi: primo, non credo proprio di avere la costanza di scrivere uno zibaldone alla settimana e secondo, quando comincio a digitare non riesco a staccarmi dal formato longform.

Ad oggi, di newsletter, ne seguo molte. Seguo Polpette di Vanz e Koselig di Mafe (ma ricordo ancora maestrinipercaso.it), seguo Ellissi di Valesio Bassan e Zio di Vincenzo Marino, seguo Heavy Meta di Lorenzo Fantoni e Link Molto Belli di Pietro Minto, [mini]marketing di Gianluca Diegoli e Between the Lines di Ella Marciello, Fuori le serie di Nicola Cupperi e Servizio a domicilio di Giulia Blasi, Slow News di Alberto Puliafito e Scrolling Infinito di Andrea Girolami… e potrei continuare. Insomma, questo se vogliamo è il mio nuovo blogroll, tutto ordinatamente archiviato su Gmail.

Questa tendenza in atto da qualche anno mi fa sempre più pensare a… no, non a iniziare una newsletter o un podcast (non so, eh… mai dire mai). Ma quantomeno a riprendermi ciò che è mio, a tornare al piacere della parola scritta e del flusso di coscienza, ché i reel sono fighi e sono anche loro nelle mie corde, ma i post lunghi di più.

Ecco, se mi avete letto fino a qui, tutto questo pippone era probabilmente per dire a me stesso e a voi (25) lettori che preferisco tornare alla roba mia e che vorrei spolverare queste stanze disabitate per troppo tempo e tornare a scrivere un po’ qui. Non semplicemente riciclando qui contenuti che ho prodotto per altre piattaforme, ma piuttosto (se è il caso) spammando sulle piattaforme contenuti che produco qui. A casa mia. Per me.
E anche per voi
, perché non è mai vero che si scrive solo per sé stessi.

LO STRASCICO DEL 2022

Io quando scelgo di muovermi da casa per andare a vedere un film in sala, o anche solo quando spulcio cataloghi streaming in cerca di qualcosa da vedere, spesso vado un po’ a caso. Ma quando si avvicina la fine dell’anno invece vado a spulciare le famose liste dei critici titolati per vedere quali sarebbero secondo loro “i migliori film dell’anno”, e poi se non ho visto qualcosa cerco, spulcio, vedo, e invariabilmente arrivo all’inizio dell’anno successivo che devo ancora vedermi un sacco di film. Anche quest’anno è andata così, e in questo gennaio 2023 troverete una valanga di film del 2022 che ho visto solo adesso. Andiamo a incominciare!

WHITE NOISE (Noah Baumbach, 2022)

Produci, consuma, crepa. Sembra essere questo il senso di White Noise, di Noah Baumbach, visto il primo dell’anno su Netflix. Diciamo che mi sembrava il film perfetto per iniziare l’anno in allegria.

Mi fa sorridere il fatto che su Wikipedia sia indicato come film “drammatico/horror”. In realtà è — e non potrebbe essere altrimenti — un pastiche di generi che dalla commedia grottesca arrivano al dramma esistenziale passando per alcune inquadrature che non definirei horror ma al massimo spielberghiane (nel senso di “puro distillato di cinema fantastico anni ’80 americano”) come la nube nera e tempestosa dell’evento tossico aereo centrale nel film. Peraltro il film inizia con una disamina degli incidenti d’auto e delle esplosioni nel cinema americano che è da applauso.

Ma andiamo con ordine: White Noise è la trasposizione (che tutti dicevano impossibile) dell’omonimo romanzo di Don DeLillo dell’85, che io ho letto più di 20 anni fa e sinceramente non ricordo. Leggendo in giro capisco che Baumbach ha adattato il testo (già di per sé iperdescrittivo e postmoderno) in modo fedele al 99%.

Di suo, quindi, Baumbach ci mette la direzione degli attori (tutti in stato di grazia, principalmente Adam Driver nel ruolo del professore imbolsito di “studi hitleriani”), e la visione caleidoscopica e frammentaria con cui taglia e monta le sue inquadrature.

White Noise ha una trama sui generis (professore universitario con famiglia disfunzionale vive nell’America consumistica degli anni ’80 tra paura della morte, fantasmi ambientalisti e paranoie varie) e una narrazione non troppo lineare. Come il libro, il film è fatto di pezzi di bravura come la lezione “a due” di Adam Driver e Don Cheadle, la sequenza (verso la fine) della suora atea che si incazza con i protagonisti che vorrebbero ottenere da lei uno scampolo di spiritualità (attenzione: è Barbara Sukowa!) o tutte le sequenze in cui i fastidiosissimi figli di Driver e di Greta Gerwig (madre svagata e probabilmente tossicodipendente) fanno i sapientini e si parlano addosso l’un l’altro.

C’è uno studio particolare su costumi e set e una colonna sonora di Danny Elfman realmente incisiva nel senso che accompagna e non enfatizza mai (non viene da canticchiarla come se fosse un film di Tim Burton, insomma).

E poi ragazzi, c’è una scena sui titoli di coda che per me, ultrafan degli LCD Soundsystem, vale tutto: il balletto del consumismo reaganiano nel coloratissimo supermercato sulle note di una nuova canzone composta appositamente da James Murphy per il film. Io gli darei comunque il massimo dei voti, voi guardatelo e poi mi dite.

AMSTERDAM (David O. Russell, 2022)

Amsterdam: molto curioso questo film di David O. Russell con un cast interessante (Cristian Bale che fa Cristian Bale al quadrato, Margot Robbie in un ruolo poco Margot Robbie e John David Washington che ogni volta che lo vedi pensi ma chi cazzo è? Ah, già, è il figlio di Denzel).

Sulla carta un noir con una bella iniezione di humor e azione che si svolge nell’America degli anni tra le due guerre, oltre che — ovviamente — ad Amsterdam. Alla prova della visione, un noir vagamente anemico, con una fotografia programmaticamente desaturata che dopo un po’ stanca, ma con un quid che cattura l’attenzione: l’occhio di vetro di Cristian Bale? La chimica impossibile eppure presente tra i tre protagonisti? Il cameo sprecato di Robert De Niro? L’ambientazione tra i reduci del primo conflitto mondiale che è certamente poco praticata? Non lo so, eppure Amsterdam è un film abbastanza intrigante da lasciarsi guardare.

La trama in breve (no spoiler, anche se si tratta di una “storia vera” ovviamente romanzatissima): Burt e Harold si conoscono nel 1918 al fronte in Europa. Feriti in battaglia vengono curati da Valerie, infermiera/artista straordinaria. Poi vanno ad Amsterdam impostando uno strano rapporto a tre, poi Burt torna a New York (dove ha una moglie) ma quando lui viene arrestato anche Harold e Valerie tornano in patria per aiutarlo e poi si perdono di vista. Negli anni ’30, Harold e Burt vengono contattati per risolvere un caso di omicidio che nasconde un verminaio di filonazisti, organizzatori di colpi di stato occulti e… parenti di Valerie.

Da lì in poi c’è un bordello intricatissimo di colpi di scena che lasciano un po’ il tempo che tovano ma non sono proprio “telefonati”. Insomma, un bel film “medio” come se ne facevano tanti una volta, visibile su Disney+.

TERRIFIER (Damien Leone, 2016)

Volevo vedere Terrifier (il primo capitolo del 2016) giusto per completezza, dopo aver visto durante le festività natalizie Terrifier 2, sempre di Damien Leone ma fatto con più soldi e con più sangue e ammazzamenti creativi nel 2022. Più che altro per capire le origini di questo personaggio di Art il Clown, una via di mezzo tra Pennywise, Freddy Krueger e Jason Voorhees.

E niente, Terrifier è sostanzialmente uguale a Terrifier 2 ma con meno soldi, non si spiega un cazzo ma è semplicemente una fiera di squartamenti, crani sfondati e ferite sanguinolente da armi da taglio o mazze chiodate che testimoniano il talento in erba di Damien Leone come practical FX master.

La trama è: Art il Clown ammazza diverse pischelle nella notte di Halloween ma anche un paio di pizzaioli, un disinfestatore e una barbona. Finisce esattamente dove inizia Terrifier 2, con Art che non è morto e fa brutto al medico legale. Per amatori.

ORPHAN: FIRST KILL (William Brent Bell, 2022)

Mi piace quando vendono i film come horror quando in realtà sono dei thriller molto poco spaventosi, però dai. Orphan: First Kill ha anche il suo perché. Sempre se avevate apprezzato Orphan, il film del 2009 in cui Isabelle Fuhrman interpretava Esther, la bambina malefica che si faceva adottare dalla famiglia di Vera Farmiga e che si scopriva poi che in realtà era una truffatrice nana e psicopatica che uccideva tutti.

Dodici anni dopo hanno deciso di fare… il prequel. Sempre con Isabelle Fuhrman, Ora, la curiosità del film sta nel fatto che — se l’attrice protagonista in Orphan aveva, boh, 12 anni, e doveva interpretare una trentenne psicopatica che faceva finta di essere una bambina di 12 anni, oggi la Fuhrman ha tipo 24 anni e deve nuovamente interpretare lo stesso personaggio.

Quindi se prima il focus era “recitare come un’adulta”, oggi il focus è “sembrare una bambina diabolica credibile”. Tutta questa roba è resa con trucchi cinematografici vecchi come Méliès (piattaforme, rialzi, angolazioni e tagli particolari, un po’ come le differenze di prospettiva tra Gandalf e Frodo nel Signore degli anelli, per intenderci).

Detto ciò, qui vediamo le origini di Esther, che in realtà si chiama Leena ed è una nota criminale estone che ci viene presentata tipo Hannibal Lecter e che — fuggita dal manicomio criminale dove è rinchiusa — si spaccia per una bambina scomparsa anni prima e “ritorna” dalla famiglia d’origine in America.

Seguono ovviamente sospetti, sotterfugi e macchinazioni, ma soprattutto ad un certo punto c’è un colpo di scena assolutamente inaspettato che cambia le carte in tavola e che è sinceramente molto godibile. Ovviamente poi è un bagno di sangue e muoiono tutti malissimo tranne lei, ma questa è la parte prevedibile. A me non è dispiaciuto per niente.

AFTERSUN (Charlotte Wells, 2022)

Santo Mubi che mi permette di vedere Aftersun, il film di debutto di Charlotte Wells. Il film che — se lo avessi visto una settimana fa — sarebbe entrato di diritto nella top 3 dei migliori film del 2022.

Sì, Aftersun è uno di quei rari miracoli in cui ti sembra di vedere una cosa nuova, una cosa che parte dal banale, dal quotidiano, volendo dal noioso e ti porta in un territorio metafisico, profondamente emotivo, illuminante.

Aftersun è un film drammatico. O meglio, è antidrammatico. È un film bastardo, che dopo una ventina di minuti ti fa pensare “qui sta per succedere qualcosa di brutto”, ma poi… non succede mai un cazzo. O forse sì. Forse succede qualcosa ma non lo capisci col cervello, lo senti piuttosto sotto pelle. Dopo un’ora vedi certe inquadrature e pensi “ok, qua scatta la tragedia”. E in effetti ci sono brevi sequenze che sono come nubi nere all’orizzonte, ma la tempesta non arriva. La tempesta è fuori campo, fuori fuoco, filtrata dalla memoria, dal sogno, dagli schermi, dagli specchi, dai riflessi.

Comunque. C’è questo Calum (il Paul Mescal di Normal People, è bravissimo e va tenuto d’occhio) che è un giovane padre scozzese divorziato che va in vacanza in uno scalcinato resort turco con la figlia undicenne Sophie (Frankie Corio, anche lei eccezionale).

Tutto il film è un pedinamento (una volta si diceva “slice of life”) di questa coppia padre-figlia sui generis, della loro intimità, dei loro scazzi e dei loro momenti di locura. C’è la piscina, ci sono gli animatori che fanno le serate karaoke, la Macarena (il film si svolge negli anni ‘90), le riprese dalla videocamerina Sony montate col resto del film. Riprese che, capiamo quasi subito, una Sophie adulta sta riguardando oggi.

Niente viene specificato in Aftersun, tutto resta sospeso. Anche nel finale non esplode nessun dramma, eppure tu ti ritrovi a provare quella sensazione… di rimpianto, di lutto, insomma.

Fotografia e soprattutto montaggio sono costruiti ad arte per rendere il quotidiano metafisico: Wells riesce a rendere in modo molto proustiano una vacanza “qualsiasi” un romanzo di sensazioni universali, semplicemente accumulando dettagli e non spiegando mai nulla. Ecco, se dovessi dire cosa dovrebbe o potrebbe essere veramente il cinema, citerei Aftersun tra gli esempi migliori.

THE MENU (Mark Mylod, 2022)

Cosa dire di The Menu di Mark Mylod? Niente, che mi è piaciuto ma che meglio farebbero a non venderlo come horror. Qui siamo dalle parti di Triangle of Sadness, ovvero “vediamo quanto cazzo fanno schifo i ricchi”, ma con un piglio ammerigano invece che scandinavo. Un piglio, se vogliamo, meno gelido e volutamente respingente e più appassionatamente diabolico.

Quindi, se vi piace l’idea di vedere per un paio d’ore Ralph Fiennes nei panni di un mefistofelico chef che recita battute memorabili a palate e a botte di piatti assolutamente incredibili e bizzarri (ma dall’intento molto satirico) tira le mazzate in faccia ai ricchi veri, ai nouveau riches, ai parvenu hollywoodiani e a tutta la cricca dei borghesi ossessionati da masterchef, accomodatevi.

Ovviamente la metafora della lotta di classe è tirata alle estreme e mortali conseguenze, e lo chef (sì, chef!) non si ferma davanti a nulla, né mutilazioni, né omicidi, né suicidi di massa per dire la sua, cioè… per creare la sua opera d’arte (culinaria) totale.

I due problemi che io intravedo in The Menu sono: 1) che il film funziona alla grande fino circa a metà, quando il mistero e il non detto sono parecchio intriganti. Nel momento in cui, appunto a metà del film, lo chef rende palese il suo obiettivo finale, diventa un po’ tutta un’attesa senza mistero e 2) che il modo in cui un certo personaggio la scampa con una allegoria gastronomica del proletariato è un tantino assurdo.

Poi, devo dire, se volevano venderlo come horror, io avrei insistito un po’ di più sul cotè slasher. Tutti quei coltellacci a disposizione e ci tagliano solo un dito.

THE PALE BLUE EYE (Scott Cooper, 2022)

The Pale Blue Eye è uno di quei bei filmoni di una volta, con almeno un attorone di richiamo (Cristian Bale nel ruolo di Cristian Bale XIX secolo, ma quanto sta lavorando Cristian Bale ultimamente) e con un high concept di tutto rispetto: qualcuno sta uccidendo la meglio gioventù di West Point e bisogna capire chi e perché. In compagnia nientemeno che di Edgar Allan Poe in persona.

Metto subito le mani avanti: ieri ho ricominciato a lavorare nonché a praticare yoga, quindi diciamo che durante la visione mi sono addormentato almeno due volte. Ma — essendo in pratica un mystery per di più in costume, posso dirvi che alla Titti è piaciuto un casino (la Titti predilige i true crime e Bridgerton).

In pratica il Cristian Bale del 1830 viene chiamato a risolvere un caso di omicidio in cui al cadavere viene anche asportato il cuore: satanismo? Nonnismo tra cadetti? C’entra la figa? (Spoiler: c’entra, ma non come pensate voi). Casualmente chi sta studiando a West Point quell’anno? Ma il cugino malvagio di Harry Pot- il non ancora famoso Edgar Allan Poe! Seguono misteri misteriosi e un 60% di inquadrature girate in piena notte in un bosco con la nebbia e con la gente vestita prevalentemente di nero (sarà per quello che ad un certo punto ho ronfato).

Comunque sul finale mi sono risvegliato di colpo perché ovviamente c’è il super colpo di scena che ribalta tutto quello che credevamo di sapere fino a quel momento. Caruccio, dai. Devo capire se ho voglia di rivederlo.

PIGGY (Carlota Cereda, 2022)

Cerdita di Carlota Pereda (titolo internazionale con cui lo potete trovare in giro: “Piggy”) è un thriller spagnolo abbastanza sorprendente. Purtroppo come dicevo si trova in giro solo nella release doppiata per il Sundance 2022, quindi vedi questa rosa di personaggi che popolano un villaggio nell’Extremadura che muovono il labiale in un modo che ti fa venir voglia di ascoltare la loro recitazione e invece parlano tutti un inglese abbastanza asettico (che, mi immagino, sia il “doppiaggiese” degli americani).

Ma vabbè. La cerdita, la “scrofa” del titolo è Sara, la figlia del macellaio del paese, interpretata da Laura Galàn che evidentemente, data la sua fisicità, è in sintonia con il personaggio e con le sue motivazioni e questo porta il tutto a un livello di empatia molto alto.

Sara è bullizzata dalla gang delle ragazze fighe che gliene fanno di tutti i colori. Quasi la affogano in piscina, le rubano vestiti e zaino, la fanno correre per strada in bikini, e questo oltre i continui e ripetuti insulti per il suo corpo non conforme. E vi assicuro che — se Piggy è venduto come un horror — la parte più horror è proprio questa. Ma se voi avete visto il poster del film, dove Sara è completamente coperta di sangue, vi aspettate giustamente il sangue. Diciamo che per caso nel villaggio passa un serial killer che prende di mira proprio le ragazze stronze e che dimostra invece una strana forma di empatia e rispetto per Sara (tipo che le compra le merendine e gliele fa trovare sulla finestra anche se lei è a dieta perenne).

Da questa premessa tutto lo svolgimento è: Sara sposerà il punto di vista del serial killer e godrà nel vedere smembrate le stronze compagne di scuola o le salverà? Per saperlo dovete guardarlo.

Comunque è anche un film profondamente spagnolo, quindi alla tensione e al sangue si abbina un gusto assurdo per il surreale e per la commedia grottesca che alleggeriscono senza stonare. Il personaggio della madre di Sara, poi, è fantastico.

BROKER (Hirokazu Kore’Eda, 2022)

Ciao, avete visto Broker, l’ultimo film di Hirokazu Kore’eda? Vale la pena vederlo con attenzione per capire cosa continua a funzionare bene nel cinema del (a-hem) più grande regista giapponese vivente e cosa invece va leggermente in merda.

Non è il primo film che Kore’eda gira fuori dal Giappone (ne ha fatto uno in Francia nel 2019 che non ho visto), ma è il primo che gira in un altro importante mercato asiatico, quello coreano. La sintonia incredibile che c’è tra Kore’eda e i suoi attori — qui in particolare con Song Kang-Ho che come in tutti i film cui partecipa (Parasite, Memories of Murder, A Taxi Driver, per dirne tre) si mangia la scena sempre e comunque — è sempre palpabile.

Il problema potrebbe essere duplice: da un lato con Shoplifters Kore’eda ha raggiunto un po’ una vetta nelle sue variazioni sul tema della famiglia non convenzionale, e questo Broker non fa che suonare sempre le stesse corde. Dall’altro, il confronto con il mercato coreano. Mi pare che i film giapponesi siano molto più lineari e diretti dei film coreani. Entrando in questo mondo produttivo decisamente diverso, Kore’eda si piega (volentieri e con gran divertimento, immagino) a realizzare quel pastiche di generi che fa sembrare Broker una serie TV coreana condensata in due ore: c’è il dramma familiare, ci sono i personaggi canaglia ma adorabili, ci sono i bambini, c’è però anche il buddy cop movie, c’è l’investigazione, c’è persino una sottotrama pseudo-mafiosa e un omicidio. Insomma, un po’ tanta carne al fuoco.

Detto ciò, al solo scopo di fare un po’ di analisi saputella e fastidiosa sul cinema asiatico, Broker è un film comunque godibile. La premessa è quella delle baby box (equivalente coreano del sagrato della chiesa nell’Italia degli anni ’50-’60) in cui le ragazze madri depositano il fardello dei figli non voluti.

Sang-Hyeon e Dong-Soo, due adorabili spiantati, ogni tanto trafugano un neonato e lo vendono al “mercato nero delle adozioni” (che ovviamente in Corea è una roba grossa). Fanno i “Broker” di bambini. Senonché So-Young (la madre che abbandona il bimbo all’inizio) cambia idea, li sgama e si mette in viaggio con loro per vendere il bambino al miglior offerente.

Nel frattempo tutta la gang è seguita da una coppia di poliziotte (una è Bae-Doona, la ricorderete per i film delle Wachowski) che li vuole incastrare. Per buona misura ad un certo punto sul furgone dei protagonisti si nasconde anche Hae-Jin, un bambino dell’orfanotrofio maniaco della Premiere League che ha lo scopo nemmeno troppo nascosto di esplicitare “la linea comica”.

E niente, per trovarlo dovete sgattare un po’ nei torrenti, ma è molto interessante, anche se non lo definirei il miglior Kore’Eda. Probabilmente però è il miglior Song-Kang-Ho. Almeno, lui dice così.

M3GAN (Gerard Johnstone, 2022)

Allora, c’è questo M3GAN che è il grande e inaspettato successo di gennaio 2023. Capirete anche voi che un film che parte da una premessa che mescola Chucky la bambola assassina, Artificial Intelligence (e quindi di seconda mano Pinocchio) e Terminator non poteva passare inosservato al mio radar personale.

E quindi sono qui a dirvi che M3GAN è un film simpatico, non particolarmente horror, godibile da tutta la famiglia (vabbè diciamo che alla Creatura non lo farei vedere, ma a un ragazzino delle medie magari sì) e che ha interiorizzato quella che possiamo chiamare in termini di marketing audiovisivo, “la legge di Mercoledì”, e cioè che ci deve sempre essere almeno un balletto stronzo che tutti possano rifare su Tik Tok.

M3GAN (Model 3 Generative Android) è appunto un robot avanzatissimo a grandezza naturale in grado di imparare e interagire con i bambini come una compagna di giochi ma anche come una tata. Cathy invece è una bambina di 9 anni che all’inizio del film perde i genitori in un incidente d’auto e viene affidata alla zia che GUARDA CASO è l’ingegnere che sta creando il prototipo di M3GAN per la sua ditta di giocattoli.
La zia ha l’istinto materno sotto le scarpe ma ha anche una gran voglia di testare M3GAN con una bambina vera, e detto fatto, scatta l’inquietante legame tra la bambina e il robot.

Poi vabbè, inizia a scorrere il sangue, le leggi della robotica finiscono nel cesso, c’è anche una interessante scena che cerca goffamente di spiegare l’elaborazione del lutto e l’attaccamento alle bambole come oggetti transizionali da parte della psicologa di Cathy (psicologa che NON muore male, come tutte le psicologhe di questo tipo di film).

Ecco, se dovessi dire, M3GAN mi ha stupito molto per l’elevato numero di persone che NON muoiono male. Io mi aspettavo più stragismo. Il finale è puro James Cameron. Caruccio, ma spero che non facciano sequel.

MY BEST FRIEND’S EXORCISM (Damon Thomas, 2022)

Gennaio è un po’ il mese in cui tiro fuori dal cestone dei DVD a 1 euro (cioè dai cataloghi streaming, in questo caso di Prime Video) quelle cacatine che ho rimandato perché c’erano cose più interessanti da vedere. Ma comunque sia me le ero segnate, no?

E allora ecco My Best Friend’s Exorcism, che in pratica è come se John Hughes avesse girato un horror teen comedy. Allora: la parte teen è preponderante, è un po’ Mean Girls ma negli anni ’80, si parte con gli A-Ha e si continua coi Culture Club, per darvi il contesto.

Pettinature, vestiti e production design sono secondo me il vero valore aggiunto di questa minuziosa ricostruzione storica. La parte comedy, vabbè, se vi fanno ridere i battibecchi tra amiche del liceo, sì, c’è la comedy (che però è portata avanti alla grande da Chris Lowell e dal suo trio di fratelli culturisti cristiani).

La parte horror è ovviamente all’acqua di rose (o al vomito di milkshake, se preferite), ma è correttamente sviluppata secondo una grammatica filmica molto slasher anni ’80 (pedinamenti nel buio etc). Bella la parte delle tenie, non dico altro.

Il film è tratto da un romanzo young adult di successo che io comprerei solo per la copertina (cercatelo on line, è fighissima). Ah, e c’è Elsie Fisher che ormai è specializzata nei ruoli da protagonista nerd e brufolosa di ogni grado scolastico (già sprizzava disagio da tutti i pori in Eight Grade).

BODIES BODIES BODIES (Halina Rejin, 2022)

Voglio parlarvi di Bodies Bodies Bodies (che si trova “in giro”) e che il vostro affezionatissimo ha pescato in quanto è un film A24 e tutti i film A24 vanno visti a prescindere, a maggior ragione oggi che un film A24 è candidato a 11 Oscar e li vincerà tutti (temo di no, ma lasciatemi sperare).

Tornando a Bodies Bodies Bodies, lasciate che vi dica che dà l’impressione di una mezza cagata anche se poi non lo è. Perché è costruito ad arte per farvi venire l’orticaria, con i suoi esponenti Gen-Z che vorresti vedere morti tutti subito, con tutte le buzzword che triggerano i maggiori di 25 anni e con quella macchina da presa un po’ scialla che inquadra apparentemente a cazzo e con le luci dei telefonini come unica fonte luminosa.

Ci sono 7 personaggi. Due ragazze che fanno coppia (una è Maria Bakalova di Borat 2) e che limonano felici in primissimo piano nella prima inquadratura; una podcaster svampita (è la bravissima Rachel Sennott di Shiva Baby)e il suo ganzo circa quarantenne molto fuoriposto; il padrone di casa coglione senza speranza (Pete Davidson) e la fidanzata attricetta cagna maledetta; l’amica single incattivita e incazzosa.

Tutti insieme ballano Azealia Banks e tirano di coca continuamente, poi dopo mezz’ora, quando tutti i boomer hanno spento il televisore, parte la trama. Decidono di giocare a Bodies Bodies Bodies, che è tipo Among Us dal vivo, uno è l’assassino ma non si sa chi e bisogna indovinare.

Non passa molto che ci scappa il morto vero. C’è un killer tra loro? E se sì chi sarà? O è uno che viene da fuori? Le idiosincrasie e le poveracciate dei ragazzi (più che altro delle ragazze) vengono fuori una ad una in uno stranissimo “approfondimento dei personaggi” che non ti aspetteresti in un horror / slasher / comedy, ma ehi, è un film basato su un racconto della celebratissima Kristen Roupenian (Cat Person), ed è un film A24!

Comunque sia, c’è un po’ di ultraviolenza e alla fine un colpo di scena che mette in prospettiva tutto il film rendendolo MOLTO più idiota di quanto non sembrasse a prima vista. Un oggetto strano. Se vi capita vedetelo.

KIMI (Steven Soderbergh, 2021)

Questa è Zoe Kravitz coi capelli blu. Il film è Kimi di Steven Soderbergh. Kimi è il nome di un assistente vocale tipo Alexa. Zoe Kravitz è un’impiegata agorafobica della ditta che produce Kimi. Il suo lavoro è ascoltare gli stream audio degli utenti flaggati e istruire la AI con qualche riga di codice per prevenire altri errori. Non esce di casa nemmeno per curarsi un ascesso dal dentista.

Ma un bel giorno negli stream audio scopre la prova di un crimine. Che fare? Prova a denunciarlo alla ditta, la ditta (nella persona di Rita Wilson) preferirebbe insabbiare tutto. Anche perché c’è di mezzo un ricatto e dei gangster vorrebbero far fuori Zoe Kravitz. Ma Zoe Kravitz è figlia di Lenny e di Lisa fucking Bonet, e state sicuri che il finale di Kimi non vi deluderà quanto ad adrenalina e simpatica violenza.

Soderbergh ha fatto Hitchcock (in verità rifacendosi poi a De Palma o a Coppola) confezionando un gioiellino di thriller che grazie a dio non dura 180 minuti. Lo ha fatto per HBO Max con cui collabora da un po’, quindi non so se qui da noi è già su qualche piattaforma. Comunque “si trova”.

MARCEL THE SHELL WITH SHOES ON (Dean Fleischer-Camp, 2022)

Per quei pochi di voi cultori dell’animazione indipendente su Internet, Marcel The Shell With Shoes On (d’ora in poi MTSWSO) è un corto di successo lanciato su YouTube nel 2010 che poi ha generato altri corti, libri per bambini e — nel 2022 — un film vero e proprio, prodotto da A24.

Il titolo MTSWSO dice più o meno tutto. Marcel è una conchiglia (non un mollusco, una lumaca o un paguro: proprio solo una conchiglia) con un’occhio sporgente, due scarpine da tennis e una boccucia animata che parla parla parla sempre con la vocetta garrula e un po’ stridula di Jenny Slate (ai tempi del primo corto sposata col regista Dean Fleischer-Camp).

Voi direte sorbole, che minchiata! E invece MTSWSO è considerato da fonti affidabilissime come uno dei migliori film del 2022 e sicuramente nella top 3 dei film animati. Ecco, l’animazione: è molto curiosa, dato che si tratta di un finto documentario (un mockumentary) dove Marcel e la nonna Connie, con la voce di Isabella Rossellini, sono personaggi animati in stop motion in un contesto assolutamente realistico e quotidiano.

La premessa è che Dean (il regista, in una versione romanzata di sé stesso) va in un AirBnb perché si è separato e non ha una casa. Lì incontra Marcel e decide di fare un documentario su di lui. Marcel, l’ho detto, parla in continuazione, un po’ come i bambini che devono dirti la loro su tutto, risultando surreale e al tempo stesso profondissimo. Marcel dorme su una fetta di pan carrè, porta al guinzaglio un grumo di peli umani, escogita trucchi geniali per muoversi nella grande casa, e ha un problema. La sua famiglia è sparita da quando i proprietari umani della casa si sono trasferiti.

Dean manda su YouTube un breve documentario su Marcel e lui diventa famoso (e qui la storia diventa meta e cominciano ad arrivare gli influencer che si fanno i selfie davanti alla casa di Marcel). Poi, insomma, c’è una svolta un po’ drammatica e Marcel ha sempre più bisogno di famiglia, ma ci sarà anche un lieto fine. MTSWSO è uno di quei film all’apparenza incomprensibili di A24 dove poi ti trovi completamente catturato e anche un po’ con il cuore spezzato (ma lo spezza in modo GENTILE E SURREALE, non vi preoccupate).

Secondo me è adattissimo agli adulti, mentre per i bambini azzarderei che può piacere tra i 3 e i 5 anni (per l’aspetto visivo), poi non più. Troppe parole.

FISSARE I PENSIERI AL MURO

Tra poco ricomincia la giostra e io non posso fermarla.

Morire durante le feste è una roba orribile, ma in effetti lascia a chi resta il tempo di stare in una sorta di bolla sospesa in cui ci stanno le onoranze funebri, i funerali, i rosari, le tumulazioni e tutte cose.

Ti lascia anche il tempo di affollarti la testa di pensieri confusi che rimbalzano nella testa e si mischiano. Per esempio, io mi sveglio e penso che ci sono un tot di robe da fare, che c’è la pratica dell’UVG per pagare meno la RSA, che c’è il problema del neuropsichiatra, che ci sono mille cazzi continui, e poi mi ricordo che no, che adesso sei morta, così, de botto, senza un perché.

E quindi sì, ci sono dei problemi da risolvere ma sono tutti altri problemi: la casa vuota, le utenze domestiche da sospendere, cosa vendere, cosa tenere. Problemi pratici, come la lapide che è ancora da mettere sulla tua celletta che poi cazzo non ti sbagliare a chiamarla loculo che parte un fraintendimento burocratico che lèvati.

E quindi questo 2023 comincia così: quella sensazione che potrei venirti a trovare incastrando i soliti tremila impegni settimanali ma poi no, non c’è più nessuno da andare a trovare. E comunque ogni volta che venivo a trovarti era sempre tutto una merda, volevi morire e infatti alla fine sei stata accontentata.

Però tutte le volte che passo davanti ai banchi del mercato dove vendono le famose maglie che ti piacevano penso “Peccato, non potremo più comprarti una maglia”. L’ultima che ti abbiamo regalato te l’ho fatta mettere nella cassa, un po’ come le sepolture egizie, fai il tuo viaggio con gli oggetti che ti piacciono. Volevo metterti le boccette di profumo nell’urna delle ceneri poi non ci stavano, ho optato per il tuo orologio. E a proposito di profumi, in farmacia hanno ricominciato a vendere quelle boccette a 5 euro di cui facevi collezione, ma non te le prenderò più.

La cosa strana è sentire che non sono più “figlio”. Sono “marito”, “padre”, “amico”, ma il ruolo di figlio non lo devo più interpretare. Che poi diciamocelo, negli ultimi 15 anni (soprattutto negli ultimi 5) è stato un ruolo bello scomodo, quindi da questo punto di vista per me è anche un sollievo. Ma sai che c’è. La persona muore, ma la relazione no, quindi posso essere titolato a sentirmi comunque anche figlio.

Purtroppo l’amore tra genitori e figli è costituzionalmente destinato a finire male. Prima i figli se ne vanno e poi i genitori muoiono. Pare sia l’ordine naturale delle cose.

Io mi butto nelle cose pratiche, perché sono fatto così. Anche perché le cose pratiche mi romperanno il cazzo per minimo un anno. Vorrei per esempio regalare il tuo pianoforte all’RSA che ti ha ospitato negli ultimi mesi. Tu non lo suonavi da più di 20 anni, ma lì magari può ancora rallegrare qualcuno.

Stavolta non è come quando è morto papà, lì c’era molto più sclero. Stavolta ci sono solo io, mi hai fatto lo scherzone ma io me lo aspettavo. Diciamo che era un anno che mi preparavo a questo momento e che lo vivevo un pochettino dentro di me. E quando è arrivato non è che ha fatto meno male, ma avevo più strumenti.

Mi spiace per le cose che potevamo ancora fare insieme e non faremo più, ma mi rendo conto che forse tu non avevi più voglia di fare niente.
E va bene così.