LO SBLOCCO DELLO SCRITTORE

Ciao, tutto bene? Io abbastanza.
Non ci leggiamo da inizio giugno, precisamente da tre mesi.
Cos’è successo? Mi sono bloccato.

Questa estate è stata pesante, sotto più di un punto di vista. Evidentemente il contraccolpo della morte di Madre è arrivato, e con esso la necessità di svuotare la casa dei miei genitori, cosa che ho fatto in vari step tra giugno e luglio fino ad arrivare prima delle agognate vacanze al capitolo sgombero/distruzione mobilio/centro di raccolta rifiuti ingombranti.

Poi appunto sono stato un po’ in ferie, e talmente il mese di giugno mi ha prosciugato le energie che a fine luglio e inizio agosto, complice anche la calura spropositata, ho “vegetato” tra il mare e la collina, tra l’Abruzzo e le Marche, senza scrivere nemmeno una riga ma leggendo moltissimo.

Poi ho ricominciato a lavorare e ad avere problemi di salute (un grande classico delle vacanze o dell’immediato periodo post-vacanze) e intanto è morta Michela Murgia. Poi sono successe delle cose sgradevoli e forse – dico forse – mi sono sbloccato.

A fine agosto ho lanciato la mia prima newsletter su Substack, si chiama Patrilineare.
La meditavo da qualche anno (perché io sono un po’ bradipo nei miei progetti), ma mi è sembrato che farla uscire adesso fosse la cosa migliore. Peraltro non nasceva nemmeno come una newsletter, non so nemmeno io come nasceva. Comunque è tutta roba di gender, di femminismo, di patriarcato, roba che secondo me (e a quanto pare anche secondo i 130 iscritti in una settimana) serve.

Ad ogni modo, qui sotto vi lascio il testo del “numero zero”, poi se volete vi iscrivete direttamente. Per adesso, un bacio.

LE COLPE DEI PADRI
Questo è un numero zero. Patrilineare deve ancora prendere forma e sinceramente devo ancora capire dove voglio andare a parare…
…detto ciò, forse è meglio che per prima cosa mi presenti.
Mi chiamo Pietro Izzo, ho superato i 50 anni e sono un maschio etero cis.
Più o meno, dai: lo sappiamo che queste etichette non sono mai così nette.
Soprattutto, ai fini del contesto in cui ci troviamo, sono un padre.
Ovviamente non è tutto. Sono anche un professionista della comunicazione con una trentina d’anni di esperienza nel digitale (fa subito boomer dire una cosa del genere, ma tant’è). Di spazi per comunicare le mie cose, volendo, ne ho parecchi. Ho cominciato venti anni fa con un blog che esiste ancora ma che sinceramente ha un po’ fatto il suo tempo, ho proseguito con “n” canali social dove da qualche mese non mi manifesto più per sopraggiunta nausea.
Ha senso buttarsi in una newsletter? Me lo sono chiesto molte volte negli ultimi tre anni (sì, sono un po’ lento quando si tratta di portare avanti i miei progetti segreti). Da diverso tempo ormai, il mio interesse si è focalizzato sulle questioni di genere e su tutto quanto ruota intorno al tema, dal linguaggio inclusivo alla violenza sulle donne, dagli studi sul genere maschile all’analisi dei femminismi e in particolare del femminismo intersezionale.
Come padre di figlio maschio ormai decenne, sento moltissimo la responsabilità (non la “colpa”, quello era solo un modo per produrre un titolo ad effetto) che come padri abbiamo, tutti, nel trasmettere alle nuove generazioni valori ed esempi diversi da quelli che sono stati trasmessi a noi. A me per primo, che ho dovuto compiere 50 anni prima di riconoscere e poter chiamare per nome i lacci e le catene che il patriarcato mi impone.
Negli ultimi tre anni ho scritto, cestinato, riscritto, lasciato riposare, rimodellato un po’ di cose. Non sapevo dove metterle e ho pensato di raccoglierle qua. A seconda del mood del momento.
Perché ora? C’è l’imbarazzo della scelta, in questa estate infernale. Gli ultimi casi di cui ho letto, con grandissimo disagio: la sentenza di assoluzione arrivata dopo cinque anni per due stupratori di Firenze (“non avevano capito che il consenso era stato negato”) e naturalmente il caso aberrante dei sette stupratori di Palermo (quello dei “cento cani sopra una gatta”).
Una persona che seguo e stimo ha scritto riguardo alle “colpe delle madri”, invocate dalla stampa e dall’opinione pubblica in particolare sul caso di Palermo. E la domanda, molto chiara, era: “I padri, dove sono?”.
Sono qui. Siamo qui, se volete.
Se vi iscrivete, io proverò a raccontarvi cose, cose che vivo, cose che leggo e che vedo, cose che mi toccano (o come si dice oggi “mi triggerano”) come padre, come maschio, come femminista. Se ci riuscirò, se renderò interessanti questi temi per altri maschi, mi riterrò soddisfatto.
Ah, un’ultima cosa. Faccio un ringraziamento preventivo ad una serie di persone che in molti casi non conosco de visu ma che mi hanno influenzato molto nei famosi ultimi tre anni: Lorenzo Gasparrini, Alessandro Giammei, Ella Marciello, Giulia Blasi, Flavia Brevi, Lorenzo Fantoni, Mafe De Baggis, Vincenzo Marino, Valerio Bassan, Manolo Zocco, Andrea Barbera, Gabe Silvan, Daniela Losini.
E naturalmente, Michela Murgia.

ATTRAVERSO IL RAGNOVERSO

(LOL ma perché non lo hanno intitolato così… vabbè). Ma che dire di questo nuovo Spider-Man animato? Due ore e venti di assalto visivo e sonoro che rilancia tutto quello che c’era nel primo film di (non ci posso credere) cinque anni fa e se possibile amplifica ancora di più la figaggine estrema di questa saga nella saga nel cinematic universe della Casa delle Idee.

Il trailer, sono ormai due mesi che lo vediamo e lo rivediamo analizzandone ogni sfumatura. Ma non ti prepara abbastanza ad un film-monstre (il più lungo film d’animazione prodotto in USA finora) che cambia prospettiva, stile e ritmo ad ogni universo messo in scena. L’universo di Gwen Stacy è fluo, pastelloso e fluido, quello di Miles Morales è “Sony Animation Traditional”, quello di Spider-Punk (uno dei personaggi più carismatici di questo nuovo capitolo) è modellato sullo stile delle fanzine punk tardi anni ’70 (difetti di ciclostile compresi), quello di Spider-Man 2099 alias Miguel O’Hara è stilizzato e cyberpunk, quello di Pavitr Prabhakar (Spider-Man India) è… oddio, è uno dei set migliori del film (e Pavitr uno spasso). Per non parlare di quell’Avvoltoio che esce da una dimensione “leonardesca”, o delle pazze pazze Spider-Persone che si trovano al quartier generale dei Ragni (Spider-Cat e Spider-T.Rex su tutti). C’è persino un’incursione nella dimensione Lego, una strizzata d’occhio al Prowler di Donald Glover e… basta, è ovvio che questo film inanella una serie di fan service senza precedenti.

Ma non si tratta solo di quello, sarebbe banale. Lord e Miller (qui produttori e sceneggiatori, ma tra i registi spunta il Kemp Powers di Soul) hanno riservato a Miles Morales un approfondimento non banale, che il film Marvel medio si sogna, in termini di crescita, di lotta verso l’autodeterminazione e di gioco metatestuale con il “canone” che non deve essere pervertito in nessun modo (e Miles da questo punto di vista è la “perversione” personificata).

E non ho ancora detto nulla su “La macchia“, il supercattivo del film che inizia come una presa per il culo (sembra di stare ne “Gli Incredibili”) e poi diventa sempre più potente e minaccioso, capace di aprire portali tra i diversi universi e di causare danni irreparabili ovunque nella sua caccia a Miles.

Across the Spider-Verse è il secondo film di una trilogia, e spiace dire che si interrompe sul più bello strappandoti un “cazzo no” sui titoli di coda. Si permette il lusso di non inserire nessuna scena post credits, devi aspettare il 2024 per vedere come va a finire e vaffanculo. Ma sai già che torneranno Noir, Spider-Ham, Peni Parker, Peter B. Parker con la piccola Mayday e ovviamente anche Spider-Punk e Spider-Byte (avatar stile metaverso di una studentessa con visore VR). Favorisco link per orientarsi nel Ragno-Verso.

Le due ore e venti scivolano via senza che tu le patisca (anche se la Creatura accanto a me ad un certo punto ha sussurrato “non ci capisco niente ma è bellissimo“). In effetti, forse sarò io, ma mi pare che questo Spider-Man parli quasi più agli adulti – vorrei dire ai genitori – che non ai bambini, e che tocchi un range tematico che può essere apprezzato universalmente da tutti.

Comunque, la storia in breve è: Miles è rimasto solo, Gwen anche. Ma Gwen – combattendo con una versione rinascimentale di Avvoltoio – viene reclutata da una società segreta di Spider-Persone che controllano le anomalie nel multiverso. Miles è egli stesso un’anomalia (il ragno che lo ha morso proveniva da un universo differente dal suo) e ha causato un’anomalia ancora più grave alla fine del primo film creando… la Macchia (non potete capire quanto è figo sto supercattivo). Miles vuole aiutare a catturare la Macchia che si sposta tra le dimensioni, ma fa un casino. Riuscirà a metterci una pezza?

Di più non voglio dire. Fatevi un favore e andatelo a vedere perché non è solo un film, è un’esperienza.

SUZUME, CAPOLAVORO O MANIERA

Mentre ero al Salone del Libro in questi giorni ho visto il romanzo da cui è tratto Suzume (l’ultimo anime di Makoto Shinkai) e mi sono ricordato che non vi ho parlato di questo film, che mi ha lasciato un po’ interdetto.

Intendiamoci, è sempre un nuovo film di Makoto Shinkai ormai universalmente riconosciuto come il “dio degli anime” cinematografici, costantemente campione di incassi con i suoi film (e Suzume non si smentisce, top al box office sia in Giappone che in Cina).

Il comparto visivo è sempre il punto di forza dei film di Shinkai e qui, in un film ispirato a disastri naturali come il terremoto del 2011, le luci, le ombre e i paesaggi naturali e urbani sono lo scenario impressionante attraverso il quale si muovono i protagonisti Suzume e Souta.

Il problema se vogliamo sta nel comparto narrativo… C’è un primo atto del film spettacolare: nei primi 10 minuti la liceale Suzume incontra il bel tenebroso Souta, decide di seguirlo in un villaggio in rovina, scopre “i portali” che conducono ad una sorta di aldilà dove un minaccioso vermone in CGI (unica cosa che mi ha lasciato un po’ perplesso) tenta di uscire per depositarsi sul Giappone suscitando terremoti e tsunami e ovviamente scopre anche che Souta è un “chiudi portali” discendente da una stirpe di “chiudi portali”.

Suzume rimuove un sigillo che si rivela un carinissimo gatto malvagio di nome Daijin (personaggio un po’ stile Kyubei di Puella Magi Madoka Magica) che trasforma Souta in una seggiolina di legno a tre gambe. Che detto così sembra una minchiata e invece è il motore di tutte le gag della parte centrale, un road movie attraverso il Giappone all’inseguimento di Daijin,

Poi devo dire che la storia si sfilaccia un po’ e diventa meno appassionante, fino ad un finale che invece mette in prospettiva alcuni elementi fino a quel momento incomprensibili in cui ha una parte importante proprio la seggiolina di legno, regalo che la madre di Suzume le fece quando lei era piccola…

Ma non facciamo spoiler. Per me è difficile capire se Suzume è un altro capolavoro o se ormai Makoto Shinkai si è perduto nei suoi manierismi.
Sinceramente ho amato di più Your Name e Weathering With You.
Suzume è bello. Però è un po’ freddo.