NEO NOIR CULTURISTA: LOVE LIES BLEEDING

Love Lies Bleeding è un film di Rose Glass, e se avete visto Saint Maud sapete di cosa sto parlando. Quindi l’esperienza anche questa volta è tendenzialmente onirica, disturbante, ossessiva. Però forse stavolta un po’ più pop. 

Da un certo punto di vista è il classico neo-noir che riprende i soliti stilemi che dalle basi arrivano al canone Tarantino/Coen per innestare il tutto su una storia d’amore queer un po’ sopra le righe. Fa un po’ il paio con l’altro noir queer dell’anno (Drive Away Dolls) ma con un taglio meno umoristico e più inquietante.

Amy (Kristen Stewart) gestisce una palestra che un giorno accoglie Jackie (Katy O’Brien), una body builder che in breve tempo diventa l’oggetto del desiderio di Amy. Ma Amy ha anche un padre gangster e redneck (combinazione esplosiva per Ed Harris), una sorella abusata dal marito (la coppia Jena Malone e Dave Franco) e un casino di problemi.

La storia d’amore procede tra steroidi, allucinazioni perverse (cit.) e omicidi su commissione e non, scene di sesso “torride”, come si diceva una volta, il tutto sottolineato da una colonna sonora inquietante di Clint Mansell (che è il collaboratore preferito di Darren Aronofsky, il che ci fornisce un indizio in più sul tono generale del film).

Nel resto del mondo è stra-uscito, in Italia esce a settembre, secondo me “da non perdere“.

IL DIAVOLO E GLI ANNI ’70

Late Night With The Devil è il classico film che sulla carta mi attira perché c’è un gimmick strano. In questo caso è il fatto che tutto il film sarebbe un nastro ritrovato di una puntata di Halloween dello show Night Owls (un late night show americano fittizio degli anni ’70) in cui succedono cose brutte con il diavolo di mezzo.

L’altro motivo che mi spinge a vedere il film è David Dastalmachian (già notato come “faccia interessante” in Suicide Squad e Oppenheimer) nel ruolo del protagonista, perfetto a interpretare il presentatore mellifluo ma fondamentalmente tragico degli anni ’70.

Insisto a ripetere molte volte “anni ’70” perché è il film stesso che si apre con una specie di cinegiornale totalmente dedicato al decennio e allo spiegone preventivo della premessa narrativa: Dastalmachian è Jake Delroy, un divo televisivo che è sempre una spanna dietro a Johnny Carson come ascolti, sposato con una bella attrice che dopo qualche tempo muore di tumore ai polmoni e (attenzione) parte di una loggia in odore di satanismo che si ritrova nei boschi intorno a New York.

Dopo, ci viene data in pasto la registrazione del famigerato episodio “con il diavolo”, inframmezzato da alcune riprese dietro le quinte. E niente, il film in sé è esattamente una puntata di un late night show, con i suoi ospiti (Christou il sensitivo che parla con le anime dei defunti, Carmichael lo scettico ex prestigiatore che smaschera il paranormale, la psicologa June e l’indemoniata Lilly).

Proprio Lilly, in una scena che riprende tutti i canoni del genere esorcistico, rivela la sua possessione in diretta con contorno di rivelazioni sulla moglie morta di Delroy e compagnia cantante (all’inferno). Carmichael vuole dimostrare che è tutta una bufala e si produce in una scena di ipnotismo che preannuncia un atto finale ricco di splatter e interiora, ma infine Lilly non ci sta e il demone che la abita vuole rimettere le cose in chiaro. Il finale è lisergico e confuso, ma molto divertente (se vi piace vedere tizi vestiti anni ’70 che muoiono male).

E niente, alla fine la puntata si interrompe e finisce il film.
Però bello, eh. Un po’ buttato lì ma bello.

THE HUMANS: HORROR IMMOBILIARE

Cosa dire di The Humans, film che mi tenevo da parte da un po’ su Mubi e che finalmente sono riuscito a vedere? Prima di tutto che – data la presenza di Beanie Feldstein e Amy Schumer nel cast – ero assolutamente convinto si trattasse di una commedia, mentre invece è un horror.

A meno che non vogliamo pensare alla commedia umana nel senso balzachiano del termine. Ma comunque lo paragonerei più a un Polanski vintage. The Humans è un horror quieto e soffocante, tratto da una pièce teatrale dello stesso regista, in cui una normalissima famiglia passa il Thanksgiving a New York, nel fatiscente appartamento che Beanie Feldstein e Steven Yeun hanno appena comprato.

Genitori, sorella (Amy Schumer) e nonna di lei si aggirano per la casa notando i difetti, la muffa, i radiatori rotti, gli spazi angusti, i rumori (soprattutto il padre, un magistrale Richard Jenkins). 

Le conversazioni incessanti, a volte in primo piano, a volte come “origliate” da una stanza all’altra, dipingono le relazioni e i malanni di una famiglia come molte altre: ognuno dei membri ha i suoi problemi e i suoi rancori. La cinepresa, invece, indugia sui muri, sugli angoli, sui tubi, sulle luci sfarfallanti, e rende l’appartamento il settimo protagonista della pièce.

Poco a poco, il marciume dell’ambiente sembra contagiare anche il carattere degli “umani”. Poche volte ho visto qualcosa di così terrificante senza che muoia nessuno e senza una goccia di sangue.