A24, MA PER RIDERE

Parte del mio recupero di tutta (o quasi) la filmografia A24, Morris From America di Chad Hartigan è una commedia che in USA definirebbero “quirky” la cui premessa è: tredicenne di colore sovrappeso e wannabe rapper si trasferisce dall’America a Heidelberg (cioè… di tutti i posti proprio Heidelberg) con il padre vedovo (Craig Robinson, qui al suo defining role, direi).

Morris (Markees Christmas) è tenero e imbarazzante come solo un tredicenne sa esserlo, e il rapporto conflittuale col padre comunque amorevole e disponibile a “vederlo” anche quando Morris sfugge allo sguardo è il cuore del film. Attenzione alla scena in cui Morris inizia a pomiciare col cuscino, che sembra uscita da un episodio di Big Mouth.

Menashe di Joshua Z. Weinstein è un’altra di quelle commedie A24 che ad un certo punto ti chiedi cosa diavolo hai appena visto. Ovviamente non è proprio una commedia da ridere, più un dramedy: Menashe (Menashe Lustig, attore e sceneggiatore yiddish) è un vedovo al quale viene tolto il figlio Rieven (Ruben Niborski) perché nella comunità ultraortodossa di Brooklyn nella quale vive e lavora come commesso di una drogheria, non è tollerato che una famiglia resti senza una figura femminile.

Menashe quindi dovrebbe risposarsi, ma non vuole. Cerca di riprendersi il figlio (che vive dallo zio, uno studioso della Torah di un certo successo) e di organizzare una commemorazione della moglie morta all’altezza della situazione. Ma essendo sfigato, gli vanno tutte storte. Il contesto è lo stesso di quella serie Netflix, Unorthodox. Il taglio è malinconico, ma il rapporto tra Menashe e il figlio è una piccola perla che fa brillare il film.

Funny Pages dell’esordiente Owen Kline (prodotto dai fratelli Safdie) è un oggetto molto strano, una commedia che fa ridere nervosamente in molti passaggi, ma che in molti altri è un misto tra il cringe e la sensazione che si stia scivolando su territori molto pericolosi, e perciò a me è sembrato bellissimo. La storia è quella di Robert (Daniel Zolghadri), un liceale che ha il dono di disegnare fumetti underground strepitosi che all’inizio del film discute della sua potenziale carriera con il suo insegnante di arte che a un certo punto gli propone di ritrarlo nudo.

Poi, per una serie di questioni che non starò a dire per non rovinare la visione, Robert – che nel frattempo ha deciso di lasciare la scuola e mantenersi da solo – finisce per lavorare in un ufficio del tribunale, dove conosce Wallace, un inchiostratore di fumetti stile Marvel con cui cerca di fare amicizia allo scopo di ottenere delle lezioni di disegno extra. Le cose però non vanno come Robert aveva pensato. Tra personaggi al limite dello squallore urbano, situazioni inquietanti e un cameo di Louise Lasser (ex di Woody Allen), Funny Pages è il classico film che “ti lascia di merda” ma al quale pensi e ripensi nei giorni successivi alla visione.

LONGLEGS: IL DIAVOLO, PROBABILMENTE

Longlegs di Osgood Perkins è un film che nei primi 20 minuti ti fomenta in un modo assurdo, poi per un’ora circa non capisci bene dove vuole andare a parare ma ti avvolge comunque in una confortevole cappa di disagio e infine, negli ultimi 20 minuti esplode, ma con un problemino che più sotto vediamo. Non è che l’hype che circonda il film non sia giustificato (c’è comunque Nicolas Cage che nicolascageggia alla grandissima), però, ecco… non credete al marketing. Longlegs è “diverso”.

Longlegs è il nome del personaggio interpretato da Cage, una nuova meravigliosa maschera horror che per me va subito a finire nel pantheon dei Freddy, dei Jason, dei Leatherface e insomma, ci siamo capiti. Una sorta di Joker invecchiato e cento volte più sopra le righe del Joker stesso, animato da intenti demoniaci e con una certa familiarità con “Mr. Downstairs”. Questa è la componente horror del film di Perkins che per il resto è invece un “solido” thriller anni ’90 che fa (molto) il paio con Silence of the Lambs di Jonathan Demme.

C’è infatti una agente speciale dell’FBI alle prime armi ma con un “sesto senso e mezzo” che viene messa dai suoi responsabili sulle tracce di una serie di cold cases: stragi familiari accomunate da alcuni elementi chiave apparentemente firmati da “Longlegs” con una serie di messaggi cifrati lasciati sulle scene del crimine

Lee Harker (il nome dell’agente interpretato da Maika Monroe, vista in It Follows) è un personaggio ambiguo, poco empatico, che evidentemente nasconde qualcosa. Il prologo con lei bambina la collega a Longlegs, ma non sappiamo come. Il film procede accumulando poco a poco pezzi del puzzle e scivolando via via nel soprannaturale.

Dove sta la chiave dell’enigma? Lo si scopre nell’ultimo atto del film, incisivo ed inquietante ma… a mio avviso troppo “raccontato” (la tecnica dello spiegone, insomma, che contraddice lo “show, don’t tell” che per me è una regola inderogabile). 

Comunque, Longlegs va visto perché ha un approccio fresco e disturbante a un certo tipo di storia molto battuta negli anni ’90 ma soprattutto per vedere Nicolas Cage che con voce stridula canta le canzoncine di compleanno urlando “Hail Satan“. Lui è proprio difficile da dimenticare.

LA STELLA DI MAXXXINE

Ti West e Mia Goth, ma che coppia fighissima sono? Già i nomi sono fantastici, e se li rimettiamo insieme una terza volta dopo X e Pearl, questo nuovo MaXXXine è un film che fa discretamente il botto… non a livelli di Pearl, ma ci siamo quasi. MaXXXine è il sequel diretto di X (laddove Pearl era l’esplorazione della giovinezza di un altro personaggio di X sempre interpretato da Mia Goth). Ma è un sequel che si svolge nel 1985 e tutto (dai titoli di testa alla colonna sonora, dagli insistiti split screen depalmiani agli inserti VHS) urla “operazione nostalgia”.

Solo che non è un’operazione nostalgia alla Stranger Things, che prende gli elementi più pop e corny del decennio per rimetterli in scena frullandoli. Oddio, forse un po’ sì, ma è un film di Ti West, diamine, quindi si parla di porno e horror, di una New Hollywood che è ormai finita e di un’industria del porno pronta a macinare e sputare starlet, di rivalsa, di vendetta, di una discesa agli inferi che sta tra Hardcore e Omicidio a luci rosse con spruzzate di Dario Argento (soprattutto uno degli omicidi) e un approccio cazzone alla storia che in sé è molto anni ’80.

Non aspettatevi un film come Pearl, qui la furia teorica è un po’ smorzata, e si capisce anche che chiudendo la trilogia West e Goth si volevano anche un po’ divertire, magari citando a piene mani Polanski, Argento, De Palma, Carpenter, Hitchcock e quant’altro. Un C’era una volta ad Hollywood più imbastardito, con una serie di attori che non ti aspetti (su tutti Kevin Bacon, Giancarlo Esposito ma anche la regista algida e stronza Elizabeth Debicki).

Il “tiro” horror lo danno soprattutto i flashback con le sequenze di X (MaXXXine è più un thriller anni ’80 che uno slasher anni ’70) e due o tre momenti estremamente splatter molto ben dosati. Si nota il gusto per gli effetti prostetici (nel film compare anche un personaggio che legge Fangoria, mitico) e i maschi in sala dovranno coprirsi gli occhi in una determinata scena.

Maxine Minx è determinata a fare tutto quello che serve per diventare una star, proprio come Pearl prima di lei, e scopriamo fin da subito che non è il serial killer che infesta le notti di Hollywood a essere il personaggio più pericoloso. Bella la sequenza dei titoli di coda che richiama il primo piano interminabile sul finale di Pearl con una testa prostetica di Mia Goth buttata su un letto.

Dal mio punto di vista – al netto di qualche piccola furberia (il citazionismo esasperato dopo un po’ rompe) – uno dei migliori horror film dell’anno.