ACTION HEROINE A 93 ANNI CON THELMA

Thelma di Josh Margolin è un interessante esperimento di action comedy senile. Sfacciatamente modellato sulla serie di Mission: Impossible con Tom Cruise, più volte citata esplicitamente, il film è la trasposizione cinematografica di un’esperienza realmente accaduta alla vera Thelma, la nonna del regista, che appare in una scena dopo i titoli di coda. Ma – e qui sta il bello del film, Sullo schermo Thelma è la mitica June Squibb, che alla veneranda età di 94 anni ha qui il suo primo ruolo da protagonista assoluta.

Thelma Post è una placida nonnina che si fa spiegare il mouse, il computer e la mail dal suo nipote ventiquattrenne. Vive da sola, con qualche difficoltà, ma è orgogliosa e testarda. Un giorno viene truffata al telefono da dei malintenzionati che la convincono a versare 10.000 dollari in contanti per pagare la cauzione al nipote finito in prigione. Ovviamente non è vero, e dopo lo spavento iniziale, Thelma medita vendetta.

Con l’aiuto dell’amico Ben (Richard Roundtree, l’indimenticato detective Shaft), ora in una casa di riposo ma possessore di uno scintillante scooter elettrico da senior citizen, parte alla ricerca del covo dei truffatori determinata a riprendersi i suoi soldi.

Al di là di una fastidiosa fotografia tutta incentrata sul fisheye e sulla sfocatura costante di tutto ciò che non è al centro dell’inquadratura, Thelma è un’ottima ora e mezza di intrattenimento che sa giocare benissimo sia la carta della suspence (geniali gli stunt di June Squibb, che “ha fatto tutto da sola”) sia quella della famiglia disfunzionale – la figlia di Thelma è Parker Posey, psicoanalista ultranevrotica.

La comicità sta soprattutto nell’assecondare i manierismi di Thelma – che sono poi quelli di molte nonne – tipo quello di chiedere a perfetti sconosciuti (anziani anch’essi) dove possono essersi già visti, perdendosi in lunghe conversazioni sul nulla. Per chi proprio non può fare a meno del “messaggio”, Thelma non si risparmia anche qualche riflessione sul ruolo degli anziani nella società contemporanea.

In sala, secondo me soldi ben spesi.

L’INTIMITÀ MASCHILE IN CLOSE

Close di Lukas Dhont è un dramma belga il cui titolo dice molto sull’argomento del film: la vicinanza. Vedere Close è una mazzata sui coglioni per un motivo molto particolare: come Monster di Kore’eda, è un film su una ipotetica relazione queer tra due ragazzi. Ed è sull’ipotesi che si gioca tutto, nel film di Dhont in modo molto più lineare, diretto e drammatico.

Léo e Remi sono amici da una vita, sono “vicini”, sono “intimi”, come due fratelli, dormono nello stesso letto confidandosi paure e aspirazioni. Si vogliono bene come si possono voler bene due persone che si sono scelte da anni e che sentono una fratellanza tra loro. Quando iniziano le scuole superiori arriva la domanda fatidica: “state spesso molto (troppo) vicini, siete una coppia?”. Arriva la polizia del genere, arriva l’omofobia, arriva il cameratismo come antidoto patriarcale allo spettro della frociaggine.

Léo su questa cosa se la prende moltissimo, e decide a poco a poco di allontanarsi da Remi, per far mostra di essere un maschio etero e cisgender. Remi, che è il più sensibile dei due, comprensibilmente la prende peggio ancora. I due litigano furiosamente, come solo due persone che si vogliono bene fanno, senza forse nemmeno capire bene il perché.

Poi succede l’irreparabile e Close si trasforma in una riflessione sul lutto, la colpa, le emozioni annodate di chi rimane. E tutto questo è originato solo da una semplice immagine-scandalo: quella di due giovani maschi che si addormentano abbracciati.

Close è un film che dovrebbe essere visto da tutti i genitori di figli maschi, nonché proiettato in tutte le scuole: è un boccone difficile da digerire, ma è importante per capire cosa trasmettiamo in termini di valori alle nuove generazioni – cosa continua a trasmettergli tutta la società. Come in Monster, anche qua è il gruppo dei pari ad innescare la miccia della tragedia – e anche quando c’è l’intervento della psicologa scolastica, è too little, too late.

Tematiche a parte, il film di Dhont è delicato e impressionante nell’uso di primi piani molto insistiti e di lunghi piani sequenza in cui emergono molto chiaramente le tempeste di emozioni e sentimenti sotto la superficie degli sguardi impassibili dei due giovani attori Eden Dambrine e Gustav de Waele (bravissimi).

Consigliabilissimo, ma non se siete già in depressione.

I MOSTRI E GLI INNOCENTI DI KORE’EDA

Monster (Kaibutsu) di Hirokazu Kore’eda è il titolo internazionale del film: quello italiano è “L’innocenza”, due titoli apparentemente in contrapposizione ma che evidenziano due possibili letture di un film complesso e meraviglioso che ho già guardato due volte e che probabilmente guarderò diverse altre volte, perché… è uno di quei film ai quali pensi e ripensi e vuoi rivedere.

In Monster la narrazione di Kore’eda appare diversa dal solito: dopo un paio di film all’estero torna in Giappone ma per un film che non è scritto da lui, e si vede perché è strutturato come un thriller in cui poco a poco la verità viene svelata con un meccanismo che può sembrare un po’ forzato ma che poi funziona.

All’inizio Monster sembra un film drammatico incentrato su Minato, un bambino con evidenti problemi psicologici sempre sull’orlo dell’autolesionismo che viene in qualche modo abusato dal suo insegnante Hori. La madre di Minato avvia una crociata (dal suo punto di vista giustissima) contro la scuola, il professore e la preside che mette in evidenza le storture del sistema. Ok. Ma poi…

Rewind. Tutti gli avvenimenti vengono rivisti dal punto di vista di Hori, l’insegnante. E le stesse immagini che abbiamo già visto, riproposte da un’altra angolazione o con un diverso taglio, ci portano a capire che forse la situazione è diversa, che forse è Minato il bullo che ha la sua vittima designata nel compagno di classe Yori, e Hori l’insegnante comprensivo che cerca di fermarlo. Il remissivo Yori, peraltro, ha un padre evidentemente abusivo che lo convince di avere un “cervello di maiale”. Alla fine di questo “secondo atto”, leggendo un tema di Yori, l’insegnante intravede la verità e quindi…

Rewind. L’ultima parte del film propone la stessa sequenza di eventi dal punto di vista dei bambini, Minato e Yori. Ed è solo a quel punto che tutte le tessere di questo meraviglioso e drammatico puzzle si incastrano e abbiamo il quadro completo. Chi è il “mostro”? Chi sono “gli innocenti”? Nell’ultima parte Kore’eda si riconferma ancora una volta il miglior regista di bambini in circolazione, anche se a quanto pare stavolta non li ha fatti improvvisare ma ha dato un copione ben preciso da imparare, contrappuntato dalle musiche meravigliose di Ryuichi Sakamoto, le ultime composte prima di morire.

Non voglio svelare nulla della delicata storia di Yori e Minato, se non che intorno a loro si dipanano le storture della società giapponese (molto simile a quella occidentale, tant’è vero che c’è un altro film – “Close” – che racconta le stesse tematiche e a questo punto vedrò sicuramente) e l’omofobia inconsapevole radicata in tutti, bambini e adulti, in un costante “gender policing” che spinge i protagonisti all’isolamento. Nulla che non abbiamo provato tutti a quell’età, e quindi ancora una volta un tema universale per Kore’Eda che viene portato fino a una risoluzione ambigua, nella quale chi vuole può leggere la tragedia, altri (come Kore’Eda stesso) potranno invece vedere la “liberazione” dalle convenzioni.

E ora scusate, vado a rivederlo per la terza volta.
Se avete pazienza e l’avete perso in sala dovrebbe uscire a breve su Mubi.