HERETIC: HUGH GRANT E L’ELEVATED HORROR

Vedere Hugh Grant che fa le sue solite faccette ma in un contesto totalmente diverso dalla solita svagata romcom inglese è dirompente: lo ami, ma allo stesso tempo ne sei terrorizzato. Probabilmente è così che si sentono anche sister Paxton e sister Barnes, le due missionarie mormoni che entrano incautamente in casa sua in Heretic, l’ultimo horror A24 che amerete odiare.

Heretic è uno di quei film che monta la tensione a fuoco lento. Incontriamo le due missionarie mentre parlano maldestramente di pornografia nella prima sequenza. Quando decidono di andare a trovare Mr. Reed (Hugh Grant in versione super azzimata e occhialuta) per “convertirlo” si imbarcano con lui in (credo) un’ora buona di dialogo sui massimi sistemi, sulla fede e sulla preghiera, sulle religioni e sulle crostate al mirtillo.

I segnali di inquietudine abbondano, e a una certa se ne accorgono anche le due ragazze, ma purtroppo a quel punto è tardi. La signora Reed, una presenza fino a quel momento solo evocata, evidentemente non esiste e il loro ospite si lancia in monologhi via via più diabolici: le due sono intrappolate, e lui propone loro di uscire di casa dal retro usando una delle due porte del suo studio: su una scrive BELIEF e sull’altra DISBELIEF.

Ma niente paura: entrambe le porte conducono in un malsano sotterraneo dove c’è una figura incappucciata (la moglie?) che apparentemente muore per poi risorgere dopo poco e raccontare l’aldilà alle due malcapitate. Segue un terzo atto particolarmente splatter che non sto qui a rovinarvi in cui qualcuno incontra un fatale destino e qualcun altro sopravvive.

A me è piaciuto (ma a me piacciono gli elevated horror), direi che si merita la definizione di “classico moderno”, ma credo sia soprattutto per merito delle faccette di Hugh Grant. Poi oh, anche la fotografia con angoli impossibili fa il suo (stesso DP coreano di OldBoy e The Handmaiden).

TRAP PARTE BENE MA LA BUTTA IN VACCA

È difficile parlare di un film come Trap. Me lo avevano detto in tanti, “non guardarlo che poi ti incazzi”. E in effetti. Trap è il più recente film di M. Night Shyamalan, con un bravo Josh Hartnett (che fine aveva fatto?) nel ruolo di un premuroso papà di una dodicenne che la accompagna al concerto della popstar da lei adorata. Senonché, questo adorabile papà è anche il pericolosissimo serial killer noto come “il macellaio”.

Ora. La premessa è bellissima, c’è spazio per una prima ora di film magistrale, di scimmiottamento hitchcockiano, ma scimmiottamento fatto bene. Sorvoliamo sul fatto che la popstar è la figlia di Shyamalan e che lui si ritaglia un cameo dallo screentime esagerato, e la prima ora di Trap sembra un film fighissimo.

Poi sembra che Shyamalan abbia deciso di aprire il manuale “Come mandare in vacca un film” a pagina 1 e che voglia farci vedere tutti i modi in cui può alienarsi lo spettatore negli ultimi 40 minuti. La sospensione dell’incredulità diventa impossibile nel momento in cui il protagonista riesce a sfuggire alla “trappola” tesa dalla profiler dell’FBI sempre continuando a fare il papà modello. 

Tutta la scena con la cantante a casa sua è assolutamente ridicola e mal costruita e da lì in avanti il film semplicemente si accartoccia su sé stesso come un castello di carte poco stabile. Dopo una risoluzione banale e una inquadratura finale ancora più banale, c’è persino spazio per una scena mid-credit che dovrebbe far ridere. Dio mio, come siamo caduti in basso.

JUROR #2, IL “CLASSICO” EASTWOOD

Quando si ha l’esigenza di vedere un film “classico” (laddove per “classico” intendo ben scritto, ben confezionato e recitato, senza guizzi autoriali strani ma solido e diciamo così “senza tempo”), non c’è nulla di meglio di un film del vecchio, granitico Clint Eastwood. E Juror #2 non fa eccezione. 

Una storia strutturata per richiamare uno dei più grandi classici hollywoodiani con Henry Fonda (La parola ai giurati di Sidney Lumet) innestandogli però nello stesso tempo un twist hitchcockiano che tiene alta la suspence.

Juror #2 in sostanza è un film sulla sfiga. La sfiga di trovarsi per ben due volte nel posto sbagliato al momento sbagliato. All’inizio è un film su un ex alcolista che viene chiamato a fare da giurato in un caso di femminicidio. Poi a poco a poco viene fuori che forse non è proprio tanto il caso che proprio lui faccia da giurato in questo… caso.

Ed è qui che da legal drama il film di Eastwood diventa un thriller con alla base uno di quei dilemmi morali tanto cari al regista che lì per lì non sapresti come risolvere. La suspence prende piede, tu ti chiedi come cazzo si faccia ad essere così sfigati nella vita. Fai il tifo per il protagonista (il bravo Nicholas Hoult che qui si ritrova, a 22 anni da About a Boy, di nuovo insieme a Toni Collette) ma nello stesso tempo sei a disagio perché non dovresti fare il tifo, perché lui è una brava persona che però è marchiata in qualche modo dal male

Non bisogna dire troppo su Juror #2, se non che è un piccolo classico moderno, e che ha uno dei finali migliori dell’anno, di quelli che con uno sguardo dicono miliardi di cose.