Quando si ha l’esigenza di vedere un film “classico” (laddove per “classico” intendo ben scritto, ben confezionato e recitato, senza guizzi autoriali strani ma solido e diciamo così “senza tempo”), non c’è nulla di meglio di un film del vecchio, granitico Clint Eastwood. E Juror #2 non fa eccezione.
Una storia strutturata per richiamare uno dei più grandi classici hollywoodiani con Henry Fonda (La parola ai giurati di Sidney Lumet) innestandogli però nello stesso tempo un twist hitchcockiano che tiene alta la suspence.
Juror #2 in sostanza è un film sulla sfiga. La sfiga di trovarsi per ben due volte nel posto sbagliato al momento sbagliato. All’inizio è un film su un ex alcolista che viene chiamato a fare da giurato in un caso di femminicidio. Poi a poco a poco viene fuori che forse non è proprio tanto il caso che proprio lui faccia da giurato in questo… caso.
Ed è qui che da legal drama il film di Eastwood diventa un thriller con alla base uno di quei dilemmi morali tanto cari al regista che lì per lì non sapresti come risolvere. La suspence prende piede, tu ti chiedi come cazzo si faccia ad essere così sfigati nella vita. Fai il tifo per il protagonista (il bravo Nicholas Hoult che qui si ritrova, a 22 anni da About a Boy, di nuovo insieme a Toni Collette) ma nello stesso tempo sei a disagio perché non dovresti fare il tifo, perché lui è una brava persona che però è marchiata in qualche modo dal male.
Non bisogna dire troppo su Juror #2, se non che è un piccolo classico moderno, e che ha uno dei finali migliori dell’anno, di quelli che con uno sguardo dicono miliardi di cose.
La zampata di Richard Curtis (che qui scrive soggetto e sceneggiatura da un paio di suoi libri per l’infanzia) si sente eccome in questo secondo film della promettente casa inglese Locksmith Animation. That Christmas (su Netflix) è il classico cartone di Natale da guardare in famiglia, ma con qualche differenza.
Meno Babbo Natale (che qui è la voce narrante e compare per poco) e più casini familiari intrecciati a Wellington-on Sea, ridente villaggio della costa inglese in cui vivono apparentemente quattro famiglie, una arcigna insegnante e un guardiano del faro. C’è il ragazzino solitario e romantico che vive con la madre divorziata che a sua volta fa la badante ed è oberata dal lavoro, innamorato di una delle due gemelle figlie dei proprietari del bazar del paese. Le gemelline sono una buona e ansiosa, l’altra estroversa ma “naughty”, e persino Babbo Natale le scambia.
In una cascina sperduta nella neve (perché c’è di mezzo una terribile tormenta) i figli di due famiglie sono affidati alla più grandicella che organizza un “natale alternativo” mentre gli adulti sono bloccati su un lago ghiacciato dopo un incidente in auto.
C’è anche il dramma, fornito dall’insegnante indurita che nasconde un segreto doloroso, dal guardiano del faro che ha la madre anziana in fin di vita e dalla scomparsa della figlia minore di una coppia degli adulti dispersi. Ma tutto è bene quel che finisce bene, con un contorno di Ed Sheeran e dei Coldplay in un film essenzialmente british che si permette a un certo punto anche una gag su Love Actually (al cui intreccio anche questo film è evidentemente ispirato).
Visto in chiusura d’anno, Vermiglio è il mio personale film-sorpresa del 2024. Il film di Maura Delpero è statico, lineare, solenne, silenzioso. Eppure è come se ci fosse il fuoco sotto la cenere (o sotto la neve, in questo caso), è ricco di deviazioni appena suggerite ma che aprono vite intere, è “popolare”, è ricco di voci, soprattutto dialettali.
Vermiglio è un film in perfetto equilibrio, senza sbavature, in cui l’unico attore famoso (Tommaso Ragno perfetto nel ruolo del patriarca / maestro di montagna) NON si mangia la scena e lascia spazio a una dimensione corale in cui hanno corpo e voce anche tutti i suoi familiari e concittadini, quasi tutti attori non professionisti scelti dopo un lunghissimo casting.
Vermiglio è apparentemente una storia personale degli avi della regista, ma io ci ho visto le storie dei miei nonni (anche: i mobili e l’arredamento dei miei nonni, i libri dei miei nonni, i dischi dei miei nonni, i vestiti dei miei nonni). Tutto l’art department in Vermiglio è così “vero” da far male, ed è una cosa che non mi capita spesso di notare nelle produzioni italiane.
La famiglia Graziadei è composta quindi dal padre/maestro e dalla moglie che gli ha dato tipo 11 figli (non ho ben chiaro il conto): tre femmine, Lucia (la maggiore e la protagonista), Ada (la mediana, dedita alla masturbazione e alle penitenze, probabilmente lesbica) e Flavia (la minore, quella intelligente che infatti sarà quella che studierà). Sette maschi, di cui il più grande, Dino, è in conflitto col padre, poi ci sono tipo quattro fratellini piccoli che funzionano da coro greco, un neonato che a un certo punto muore in una delle scene più belle del film (muore fuori campo e anche il funerale è fuori campo, ma resta una delle scene più belle, anche per la musica, tutta di cori alpini). Un altro figlio che è già morto prima che inizi il film e durante il film ne spunta un altro, partorito durante gli eventi.
Vermiglio ha l’incedere maestoso delle stagioni, per mezz’ora è inverno, poi è primavera, poi estate, poi autunno (in tutto dura due ore). In inverno arriva Attilio, il nipote del maestro riportato dal fronte da Pietro, un soldato siciliano. I due vengono tacciati di diserzione ma il maestro non ci sta: sono soldati da accogliere e nascondere. Tra Pietro e Lucia nasce l’amore, e finiscono per sposarsi (tutto questo mentre Dino litiga col padre, Ada si masturba con le foto vintage erotica del padre e poi si rotola nel guano per penitenza, Flavia studia furiosamente Pascoli).
In primavera Lucia è incinta (ma la pagnotta nel forno ce l’aveva da prima di sposarsi), Ada è attratta dalla disinibita Virginia, Dino vorrebbe bere ma non glielo permettono, Flavia viene promossa a pieni voti. In estate Pietro dice “vabbè la guerra è finita e mia madre in Sicilia manco sa che sono vivo, vado a trovarla ma torno presto”. E invece non torna.
Scoppia il dramma (che non vi spoilero) e la famiglia Graziadei avrà un notevole contraccolpo emotivo e pratico. Tutto il film è parlato in dialetto (quindi è con i sottotitoli) e non si può non pensare a Ermanno Olmi o ai Taviani. Delpero però riesce a trovare delle soluzioni registiche inedite che non lasciano mai spazio alla noia anche se ci sono lunghi momenti di contemplazione della natura o di esplorazione di primi piani intensi. Spesso le inquadrature sono a misura di bambino perché sono i piccoli di casa, nei loro incessanti bisbigli notturni (come i miei nonni e i miei prozii, dormivano in 10 in 3 letti) a cercare di cavare un senso da quello che succede: la guerra, l’amore, il sesso, il peccato, la morte, la religione.
Vermiglio è un film eccezionale, nel senso che proprio è un’eccezione nel panorama nostrano odierno. Ve lo suggerisco caldamente, è una scheggia fuori dal tempo che si pianta nel cervello, e vorresti rivederlo subito. Ma tanto andrà di sicuro su RaiPlay.
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