ANORA, TRE ATTI D’AMORE

Meritatissima Palma d’Oro a Cannes, Anora è la consacrazione di Sean Baker come regista e il lancio verso l’olimpo delle stelle di domani per Mikey Madison. Dovevamo aspettarcelo da uno che è partito con un film sullə sex worker trans di Los Angeles girato con un iPhone (Tangerine). Con Anora, Sean Baker prende una storia che potrebbe essere un Tarantino d’annata, la spoglia dell’ultraviolenza e punta i riflettori sull’interiorità dei personaggi.

Anora detta Ani (Mikey Madison) è una stripper di NYC che un bel giorno incontra nel suo club Ivan detto Vanya (Mark Eydelshteyn), figlio di un oligarca russo, ben disposto a spendere e molto portato al divertimento. Ani ha 23 anni, Vanya dice di averne 21 ma ne dimostra 15: l’attrazione è reciproca, e il confine tra la transazione economica e il piacere di stare insieme sfuma via via. Vanya paga 15.000 dollari per stare una settimana intera con Ani come “fidanzata”: i due si dedicano a sesso, party, droga, clubbing e ancora sesso, finché durante un weekend a Las Vegas, decidono di sposarsi. Per lei la cosa è seria, per lui forse un modo come un altro far incazzare i suoi.

Fin qui il primo atto, una sorta di Pretty Woman un po’ più hard, girato e montato da dio con due protagonisti in stato di grazia e una frenetica rappresentazione delle notti newyorchesi. Il secondo atto, è un’altra faccenda. La famiglia di Vanya prevedibilmente si incazza, manda gli sgherri armeni a bloccare la coppia nella loro casa di Brighton Beach (un quartiere a forte immigrazione russa vicino a Coney Island) e Vanya scappa. Ani si trova sola con due improbabili gangster e il loro capo, che vorrebbe essere da tutt’altra parte, determinati nell’obiettivo di ritrovare Vanya e far annullare il matrimonio da un giudice.

Il secondo atto è un concentrato di screwball, slapstick e gag fisiche concentrate in un interminabile viaggio alla ricerca del fuggitivo, in cui Ani progressivamente capisce in che casino si è andata a infilare e in cui – sorprendentemente – uno dei gangster sembra provare qualcosa per lei: qualcosa che forse è… rispetto? Quando Vanya finalmente si trova, completamente bruciato da alcol e droghe, entrano in scena anche i genitori di lui.

Il terzo atto è quello risolutivo: ma non va racontato. Ani capisce molte cose sulla vita, Vanya probabilmente no, e un diverso tipo di relazione sembra sbocciare. Il tutto per la durata di quasi due ore e mezza in cui si resta senza fiato e si rimane quasi sempre sul bordo della poltrona. Ovviamente va visto in lingua originale. Capolavoro.

HERETIC: HUGH GRANT E L’ELEVATED HORROR

Vedere Hugh Grant che fa le sue solite faccette ma in un contesto totalmente diverso dalla solita svagata romcom inglese è dirompente: lo ami, ma allo stesso tempo ne sei terrorizzato. Probabilmente è così che si sentono anche sister Paxton e sister Barnes, le due missionarie mormoni che entrano incautamente in casa sua in Heretic, l’ultimo horror A24 che amerete odiare.

Heretic è uno di quei film che monta la tensione a fuoco lento. Incontriamo le due missionarie mentre parlano maldestramente di pornografia nella prima sequenza. Quando decidono di andare a trovare Mr. Reed (Hugh Grant in versione super azzimata e occhialuta) per “convertirlo” si imbarcano con lui in (credo) un’ora buona di dialogo sui massimi sistemi, sulla fede e sulla preghiera, sulle religioni e sulle crostate al mirtillo.

I segnali di inquietudine abbondano, e a una certa se ne accorgono anche le due ragazze, ma purtroppo a quel punto è tardi. La signora Reed, una presenza fino a quel momento solo evocata, evidentemente non esiste e il loro ospite si lancia in monologhi via via più diabolici: le due sono intrappolate, e lui propone loro di uscire di casa dal retro usando una delle due porte del suo studio: su una scrive BELIEF e sull’altra DISBELIEF.

Ma niente paura: entrambe le porte conducono in un malsano sotterraneo dove c’è una figura incappucciata (la moglie?) che apparentemente muore per poi risorgere dopo poco e raccontare l’aldilà alle due malcapitate. Segue un terzo atto particolarmente splatter che non sto qui a rovinarvi in cui qualcuno incontra un fatale destino e qualcun altro sopravvive.

A me è piaciuto (ma a me piacciono gli elevated horror), direi che si merita la definizione di “classico moderno”, ma credo sia soprattutto per merito delle faccette di Hugh Grant. Poi oh, anche la fotografia con angoli impossibili fa il suo (stesso DP coreano di OldBoy e The Handmaiden).

TRAP PARTE BENE MA LA BUTTA IN VACCA

È difficile parlare di un film come Trap. Me lo avevano detto in tanti, “non guardarlo che poi ti incazzi”. E in effetti. Trap è il più recente film di M. Night Shyamalan, con un bravo Josh Hartnett (che fine aveva fatto?) nel ruolo di un premuroso papà di una dodicenne che la accompagna al concerto della popstar da lei adorata. Senonché, questo adorabile papà è anche il pericolosissimo serial killer noto come “il macellaio”.

Ora. La premessa è bellissima, c’è spazio per una prima ora di film magistrale, di scimmiottamento hitchcockiano, ma scimmiottamento fatto bene. Sorvoliamo sul fatto che la popstar è la figlia di Shyamalan e che lui si ritaglia un cameo dallo screentime esagerato, e la prima ora di Trap sembra un film fighissimo.

Poi sembra che Shyamalan abbia deciso di aprire il manuale “Come mandare in vacca un film” a pagina 1 e che voglia farci vedere tutti i modi in cui può alienarsi lo spettatore negli ultimi 40 minuti. La sospensione dell’incredulità diventa impossibile nel momento in cui il protagonista riesce a sfuggire alla “trappola” tesa dalla profiler dell’FBI sempre continuando a fare il papà modello. 

Tutta la scena con la cantante a casa sua è assolutamente ridicola e mal costruita e da lì in avanti il film semplicemente si accartoccia su sé stesso come un castello di carte poco stabile. Dopo una risoluzione banale e una inquadratura finale ancora più banale, c’è persino spazio per una scena mid-credit che dovrebbe far ridere. Dio mio, come siamo caduti in basso.