Fino a che punto può spingersi un favore che chiedi a un’amica? The room next door, il più recente film di Almodòvar (il primo in lingua inglese e – scopro ora stupendomi – il primo a ricevere un premio a Venezia) risponde in modo coloratissimo ma anche gelido e dark a questa domanda, mettendo in capo due pesi massimi: Tilda Swinton e Julianne Moore.
Ingrid (Julianne Moore) è una scrittrice di successo con la fobia della morte. Martha (Tilda Swinton) è una reporter di guerra stilosissima che – manco a dirlo – ha un tumore allo stadio terminale. Le due amiche si ritrovano, Ingrid supporta Martha nel suo percorso di cure finché Martha le fa “la proposta”. Vuole auto-eutanasizzarsi con una pillola misteriosa ma vuole che ci sia qualcuno nella stanza accanto: Ingrid, per l’appunto.
Le due si trasferiscono in una sbalorditiva residenza di campagna e passano una sorta di vacanza pensando ossessivamente al finale di The Dead di James Joyce o guardando vecchi film di Buster Keaton. Il patto è che quando Ingrid troverà la porta della stanza di Martha chiusa, vorrà dire che lei sarà morta.
Inutile dire che non è il migliore Almodòvar in assoluto, ma è un buonissimo Almodòvar, che non ha perso il meraviglioso vizio di mescolare Hitchcock e Sirk, che intreccia alla storia principale numerosi flashback sulla vita di Martha e un finale dove l’intrigo “poliziesco” perde decisamente di interesse di fronte ad un nuovo personaggio che entra in scena.
Abiti e arredamento a base di vivaci chiazze di colori primari sono ovviamente assicurati.
Emilia Pérez, diciamolo subito, secondo me non merita proprio 13 nomination agli Oscar. Ma questo è un parere personale. Di sicuro è un film “particolare”, di quelli che sulla carta ti fanno dire un po’ “wow” e un po’ “cosacazzo”, poi però quando lo vedi il “cosacazzo” supera di molto il “wow”.
Emilia Perez di Jacques Audiard (uno che peraltro prima di questo film ha sempre prodotto opere molto… diverse, diciamo) è un musical francese ambientato in Messico nel mondo dei narcotrafficanti che segue il protagonista (un boss dei narcos) nel suo percorso di transizione di genere da uomo a donna. Manitas (Karla Sofía Gascón) si rivolge a Rita Mora Castro (Zoe Saldana), un’avvocata che dovrebbe occuparsi delle questioni logistiche legate alla sua transizione, facendo credere lui morto e – dopo le operazioni chirurgiche – una tale Emilia Pérez assurta a nuova vita. Nel frattempo la moglie Jessi (Selena Gomez) e i figli vengono “deportati” in Svizzera. Senonché a un certo punto Emilia ha nostalgia dei bambini e rivuole tutta la famiglia con sé… segue tragedia. Allora: musical. Narcotrafficanti. Persona transgender.
Vabbè, dai. Si può fare. Audiard ci crede tantissimo. E si prende tantissimo sul serio. Ci sono – lo devo dire per onestà – dei pezzi di cinema veramente eccezionali, c’è una bravura soprattutto nell’interpretazione delle quattro protagoniste del film – una sola delle quali è veramente di origine messicana, Adriana Paz che interpreta Epifània, cui è riservato il numero finale del film – e per gli amanti dei musical ci sono almeno due pezzi coreografati e cantati molto bene (entrambi con Zoe Saldana, vera rivelazione ballerina del film).
Per il resto, Emilia Perez mi è sembrato problematico su vari livelli. Primo livello: fai un film sul Messico e su un preciso dramma del Messico contemporaneo ma non lo giri in Messico, fai tutto a Parigi perché è più comodo e ricostruisci un paese da cartolina con i mariachi e tutto. Questo fa già incazzare molte persone. Ma voglio dire, ci sta, stai facendo un musical, è tutto onirico. Il punto di riferimento di Audiard è Les parapluies de Cherbourg di Jacques Démy e già questo la dice lunga.
Secondo livello: fai un film su una persona trans e ad interpretarla c’è una donna trans, ben venga, questo è positivo. Ma in fase di scrittura ti appoggi su tutti gli stereotipi sulle transizioni di genere più beceri? “From penis to vagina”, come cantano nel numero più assurdo del film (“Vaginoplastic”), 50 operazioni in una botta sola, la persona trans bendata stile mummia che esce dalla crisalide, lo stereotipo del trans con la disforia un po’ psicopatico alla Silence of the Lambs? Io ci avrei fatto più attenzione. Non so come Karla Sofía Gascón – che indubbiamente potrebbe meritare un Oscar per l’interpretazione – abbia accettato un ruolo così tagliato con l’accetta.
Terzo livello: fai un musical e le canzoni sono… deludenti? Non memorabili? Scarsamente canticchiabili? Emilia Pérez è quel tipo di musical straniante e straniato alla Annette di Léos Carax (sempre francese, sempre molto serio, ma almeno lì c’erano le canzoni degli Sparks). Le canzoni del duo Camille e Clément Ducol sono in un paio di casi tollerabili e per il resto noiose o fastidiose.
In sintesi, Emilia Perez è uno di quei film che per carità va visto perché “è un caso”, fa parlare di sé ma più in negativo che altro. E ho il sospetto che l’Academy gli abbia dato così tante nomination come “reazione di principio” alle politiche trumpiane. Che tra i messicani e le persone transgender sembra il film fatto apposta per farlo incazzare.
Here: “qui”, è il titolo programmatico del film di Robert Zemeckis tratto dal graphic novel di Richard McGuire. Tutto si svolge nello stesso luogo, dalla preistoria ai giorni nostri, e il “trick” tecnico – perché c’è sempre un trick tecnico se no non sarebbe Zemeckis – è quello di riprendere tutto il film (tutto tranne l’ultimissima inquadratura) con una camera fissa, posizionata in un punto e mai mossa. Una camera che punta sul salotto di una casa dai primi del ‘900 ad oggi, e quando la casa non c’era, c’è lo stesso pezzettino di strada, di foresta o di magma primordiale.
Il film comincia con i dinosauri, l’asteroide, l’era glaciale. E tu ti chiedi se stai guardando un film di Terence Malick sotto steroidi. Poi c’è la natura selvaggia. Poi – io ve li dico secondo la scansione temporale, ma il montaggio è frammentato e molto sperimentale, anche all’interno dell’inquadratura stessa, con dei riquadri che vogliono richiamare le vignette di McGuire – ci sono i nativi americani, ieratici e in armonia con la suddetta natura selvaggia. Poi c’è Benjamin Franklin con i suoi eredi e la guerra di indipendenza. Poi viene costruita la casa. Poi ci va ad abitare ai primi del ‘900 una famiglia in cui lui è un appassionato aviatore e lei Michelle Dockery di Downton Abbey. Poi negli anni ’40 ci abita una bizzarra coppia lui inventore, lei pin-up. Poi dagli anni ’50 agli anni ’10 del nostro secolo ci abita la famiglia Young, centro focale della narrazione (ci torniamo). Infine, ai tempi del Covid, ci abita una famiglia di colore.
Here è un mélo sperimentale che vuole mescolare i piani temporali ma gli avrebbe giovato moltissimo discostarsi dalla visione di McGuire (perfetta per il fumetto ma qui mmmmmh) ed eliminare tutti gli altri piani temporali concentrandosi solo sulla famiglia Young. Coppia anni ’40 a parte, infatti, gli altri personaggi sono inutili e soprattutto non creano alcun interesse nello spettatore.
La famiglia Young, invece, con il patriarca Al (Paul Bettany), la moglie e (presto) i figli, procede lungo il fiume della vita con tutte le gioie e le sfighe della gente comune. Il figlio maggiore Richard (Tom Hanks) che vorrebbe fare il pittore, si innamora e mette incinta Margaret (Robin Wright): i due ragazzi, tra contrasti e momenti di tenerezza, restano a vivere nella stessa casa, gli anni passano e loro invecchiano.
Detto ciò (la storia è veramente banale, ma colpisce) quello che è seriamente imbarazzante di Here è il ringiovanimento digitale. Lo avevamo già visto in The Irishman di Scorsese, ma qui è un continuo, il Tom Hanks e la Robin Wright “giovani” sono costantemente in scena e per di più quasi sempre in primo piano… l’effetto è vagamente intollerabile e distrae molto dalla storia. Ma è il prezzo da pagare per essere testimoni di un’altra scorribanda nella tecnologia del cinema accompagnati da Zemeckis.
L’inquadratura finale – che in un certo senso riprende e fa da specchio all’inquadratura della piuma all’inizio di Forrest Gump (stesso regista e attori) – vi aprirà le cataratte del piangiometro e alla fine vi renderete conto che anche se avrete detto “ma che cazzo” più di una volta durante la visione, Here vale il prezzo del biglietto.
PS: nel trailer c’è una delle mie canzoni preferite di ogni tempo (I’ve seen all good people dal primo album degli Yes), ma nel film non mi è parso che ci fosse. Peccato.
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