GENITORI PROGRESSISTI AL BIVIO: UNICORNI

Unicorni di Michela Andreozzi sta in pochissime sale ma vale la pena cercarlo. È una commedia dolce, equilibrata, ottimamente interpretata, talvolta un po’ didascalica ma ci sta, perché il pubblico italiano su questi temi – che i battibecchi ideologizzati tendono ad inquinare tantissimo – ha anche bisogno di essere “educato” (mi riferisco alle scene/spiegone ambientate nel cerchio di terapia per “genitori unicorni”). 

La storia è quella di una famiglia allargata e progressista che viene messa in crisi da un bambino di 9 anni e mezzo, Blu (Daniele Scardini, bravissimo nel suo ruolo) che presenta una evidente varianza di genere: vuole vestirsi sempre “da femmina” e alla recita scolastica vuole fare la Sirenetta. 

Mi ha toccato profondamente, come è inevitabile, la figura di Lucio (Edoardo Pesce): papà progressista e femminista, odia il calcio, pratica yoga, definito woke dal collega, in una parola il mio ritratto (non fosse che lui abita in un appartamento meraviglioso a Roma e io no). Lucio fa il conduttore radiofonico e riesce a smontare ai microfoni del suo programma soggetti agghiaccianti come artisti del rimorchio e fanatici pro vita e famiglia. Quando però capisce che il figlio Blu non ama solo vestirsi da femmina “ogni tanto” ma ha una sua identità di genere non conforme alle aspettative sociali, va in crisi

Nell’ansia di proteggere, tenta di forzare un cambiamento nel bambino che riesce solo a far stare male tutta la famiglia. Il conflitto interiore di Lucio è molto ben rappresentato, così come la divergenza di idee con la moglie Elena (Valentina Lodovini) che non solo ha capito il figlio ma lo ha accettato. In questo senso Unicorni è anche un ottimo studio sul maschile contemporaneo e sui problemi della genitorialità. 

Quando Lucio ed Elena iniziano a frequentare il gruppo “Genitori Unicorni” – un cerchio di confronto guidato da una psicologa specializzata in varianza di genere interpretata dalla stessa regista – il respiro si allarga e la storia da familiare diventa collettiva, grazie anche a ragazzi e genitori membri attivi dell’associazione Genderlens, che ha partecipato alla produzione del film.

Inutile dire che ho pianto tantissimo. Ma Unicorni è anche un film molto divertente, fidati. Ed è abbastanza sorprendente nel panorama italiano veder trattato questo tema in modo così equilibrato.

FINALMENTE IL KUNG FU TORNA A ROMA

Mi fa molto piacere vedere che La città proibita di Gabriele Mainetti sia “primo in classifica” su Netflix tra i film più visti in Italia perché se lo merita. Lo sapevo anche prima di vederlo, che se lo meritava, ma ne ho avuto la conferma (dopo essermi un po’ mangiato le mani per non averlo visto in sala, vabbè).

Meno fulminante di Lo chiamavano Jeeg Robot e meno caleidoscopico e debordante di Freaks Out, La città proibita – pur con il suo essere praticamente due film compressi in uno, pur mantenendo la consueta professionalità nel prendere un genere e farlo bene, adattato alla realtà romana – è un film che definirei “classico”.

Le due sorelle cinesi che si allenano col kung fu negli anni ’90 finiscono ben presto in un delirio di mafia cinese, prostituzione, traffico di esseri umani. Mei (Yaxi Liu) è la più brava nel kung fu e sbaraglia gli avversari alla ricerca della sorella scomparsa proprio a Roma (bellissima, dopo una ventina di minuti, la transizione improvvisa e inaspettata in una via dell’Esquilino con il tizio che dice “ma li mortacci”).

E da lì si sviluppano due film paralleli, intrecciati, con la paura sempre che i due film non c’entrino una mazza l’uno con l’altro e invece niente, anche stavolta Mainetti ce l’ha fatta sotto il naso, le mazzate filologiche alla Bruce Lee e il dramma de noartri con la Ferilli, Giallini, Zingaretti e il bravo Enrico Borello nel ruolo di Marcello si sposano perfettamente, anche perché i misteri si infittiscono quando si scopre che il padre di Marcello e la sorella di Mei erano innamorati…

Il tema della vendetta tipico del cinema orientale e il dramma criminale in una città mai rappresentata prima in modo così multietnico vanno a braccetto con pochissime deviazioni (ho trovato un po’ inutile la sottotrama del figlio rapper del boss cinese, utile solo a rimarcare la maggiore integrazione degli immigrati di seconda generazione).

Insomma, lo sapevo che mi sarebbe piaciuto e in effetti mi è piaciuto, anche con il suo finale un po’ Kung Fu Panda che però è adorabile nella sua semplicità disarmante. Se come me non l’avevi visto, vedilo ora.

EXTRATERRESTRE PORTAMI VIA: ELIO

Mi tolgo subito il sassolino dalla scarpa: aspettavo Elio dal 2022 con ansia, e non mi ha (quasi) per niente deluso. Eppure, secondo la misurazione impietosa del box office, Elio è il film Pixar che ha incassato di meno in assoluto. Questo per me è la dimostrazione che quando ci lamentiamo che gli studios non sanno fare altro che sequel o prequel e rimasticare sempre le stesse storie e gli stessi personaggi, non dobbiamo fare altro che dare la colpa a noi stessi. Gli spettatori vogliono prequel e sequel. Semplicemente, non si fidano delle cose nuove. O forse Elio non è stato sufficientemente “spinto”, va’ a sapere.

Comunque, al netto del fatto che ci sono diverse soluzioni poco originali e snodi un po’ tirati via alla cazzo di cane, Elio per me sta nel novero dei Pixar strani, quelli che preferisco, come Il viaggio di Arlo, che non se lo caga mai nessuno e invece per me è bellissimo. Questione di gusti? Probabilmente. Ma come fai a non amare un film che solo nei primi dieci minuti ti mette: il disco d’oro della sonda Voyager lanciata nel 1977 (che immediatamente ti riporta al primo film di Star Trek); la voce di Carl Sagan che parla della possibilità di forme di vita intelligenti nello spazio; Once in a Lifetime dei Talking Heads in una magistrale sequenza a montaggio che presenta il personaggio principale e le sue ossessioni? Non puoi.

Elio è un ragazzino di 11 anni che ha perso i genitori e vive in una base militare con la zia. Il loro rapporto è conflittuale perché Elio percepisce chiaramente che la zia avrebbe fatto una vita completamente diversa se lui non fosse piombato nella sua quotidianità. In più Elio non ha amici, ha un taglio di capelli improbabile, è socialmente inetto. Tutto quello che vuole è essere rapito dagli alieni. La zia invece lo manda in un campo estivo dove Elio viene ulteriormente bullizzato, senonché a quel punto gli alieni arrivano veramente.

La parte terrestre è una delle cose migliori del film, perché quando si va nello spazio, anche Elio, come tutti gli ultimi Pixar e forse ancora di più, cede a quell’estetica tra lo psichedelico e il caramelloso che fa sembrare tutto una fiera anni ’90 di tye&dye e lava lamp. Il Communiverse, questa specie di Nazioni Unite intergalattiche con i suoi ambasciatori da tutti i pianeti, sembra molto la Federazione Galattica di Lilo e Stitch, ma con meno organicità. Gli ambasciatori sono simpatici ma non lasciano il segno (uno è pure doppiato da Lucio Corsi, vabbè).

Si innesca qui la parte di conflitto con Grigon, il guerrafondaio leader degli Hylurghiani, che Elio dovrebbe mediare diplomaticamente grazie ad una non meglio definita “Art of the Deal” (LOL). Elio finisce per diventare amico di Glordon, il figlio di Grigon, una specie di goffo tardigrado spaziale che non vuole diventare un signore della guerra come il padre. Degna di nota, peraltro, l’idea dell’esoscheletro guerresco degli Hylurghiani che rappresenta magistralmente la “gabbia patriarcale” in versione intergalattica in cui i giovani maschi riottosi devono per forza entrare. Segue un po’ di intrigo, qualche casino e un finale dolceamaro che mette d’accordo un po’ tutti.

In molte delle sue tematiche, Elio è un film profondamente spielberghiano, che rientra in quel filone di “ragazzini disadattati che però spaccano” e di “contatto con il diverso”, mantenendo però anche saldamente il punto sul rapporto tra padre e figlio e sul più generale senso di appartenenza alla famiglia – in questo Elio non è banale e fa scendere qualche lacrima agli adulti in sala.

Parlando di un preadolescente alle prese con guerre e diplomazie aliene, Elio non può non ricordare anche Steven Universe, soprattutto nella questione dei cloni, che è una delle idee più intriganti del film e che consente a Elio di toccare con mano quello che potrebbe significare vivere una vita normale sulla terra, lui che vorrebbe solo vivere nello spazio con gli alieni come lui.

Purtroppo il fatto che la lavorazione di questo film sia stata così lunga ha visto il regista originario (Adrian Molina, quello di Coco) abbandonare la sua creatura “personale” – Elio rappresenta lui stesso e la sua infanzia solitaria in un campo militare – e lasciarla in mano a Domee Shi (regista di Turning Red) e all’esordiente Madeline Sharafian. Questo ha voluto dire anche riscritture, semplificazioni e rappezzamenti che in alcune parti del film (specie nel finale un po’ tirato via) si notano.

C’è anche una scena dopo i titoli di coda, ma non è niente di che. Tutto sommato però il film l’ho trovato incantevole il giusto. Se poi hai come me un figlio come Glordon il tardigrado spaziale, il film tocca corde molto personali e non ti pentirai di averlo visto. Ovviamente attenderò il passaggio su Disney+ per rivederlo in originale.