titbits

È inutile che quei puritani degli americani si affannino a sostenere (New Webster’s Dictionary) che si dice “tidbit”, la voce “titbit” essendo tipicamente britannica. In realtà, “titbits” significa “morsettini di tettine”, derivando dall’Old English “tit”, traducibile nel Modern English “breast”. Cosa ci può essere di più appetibile? E infatti, nel giornalismo titbit sta per bocconcino prelibato (in termini di notizia) o gustoso pettegolezzo.

Per come le intendiamo noi, titbits sono tutte quelle notizie, o curiosità, o etimologie, o cose da sapere, che riguardano la lingua italiana (e talvolta le lingue straniere). Si tratta chiaramente di testi che non possono essere classificati come “prosa” o “poesia”. Diciamo che in questo spazio si parla di grammatica (per carità, niente di noioso), mentre negli altri spazi si parla di pratica. Teoria e applicazioni, se vogliamo.

Se conoscete qualche titbit, non esitate a comunicarcelo. Saremo lieti di riportarlo assieme ai nostri, citandone la fonte. Cominciamo con una considerazione fondamentale: abbiamo perso quasi del tutto il senso degli accenti italiani corretti. Porca miseria, ce ne sono due soltanto! Vediamo di imparare ad usarli bene.

Accenti ed apostrofi italiani

Seguiamo la regola semplificata: tutte le parole tronche in vocale vogliono l’accento grave, eccettuate alcune in “e”, che lo vogliono acuto. Queste:

– ché, quando sta per perché o affinché (il “che” relativo non ha accento)
– tutte le parole polisillabe tronche che finiscono in “che” (poiché, perché, dopodiché…)
– la particella né (es.: né l’uno né l’altro)
– i composti del numero tre (ventitré, trentatré, centotré, ecc.)
– la terza singolare di alcuni verbi al passato remoto (es.: poté)
– la parola viceré
– il pronome sé (sempre con l’accento, anche nella forma “sé stesso”)

La terza singolare del verbo “essere” (indicativo presente) si scrive “è” con l’accento grave. Ed anche il suo derivato “cioè” (latino: id est; inglese: i.e.).

L’apostrofo esprime la caduta di una sillaba. Le parole che lo richiedono sono: be’ (bene); po’ (poco); da’ (dai); di’ (dici); fa’ (fai); va’ (vai); de’ (dei); tie’ (tieni); ca’ (casa). Piè, per piede, fa eccezione.


Il piede eccezionale

A questo punto uno si chiede subito: perché il piede deve fare eccezione? ene, sembra che la ragione sia questa: il piede ha avuto storicamente lo stesso trattamento di città e virtù, che nei primi secoli della lingua volgare italiana si chiamavano “cittade” e “virtute”.
Chiaro, no?

Fegato e dintorni

Tutto cominciò nello studio del medico di famiglia, cui chiesi se sapeva perché il “fegato” si chiama così. Lui fece una rapida ricerca nel suo database mentale e trovò subito un greco “èpar”, da cui “epatoprotettivo”, “epatite”, eccetera. Poi trovò faticosamente un latino “iècur”, da cui però non riuscì a derivare parole italiane.
E basta.

Si meravigliò molto quando gli dissi che fegato viene dal latino “iècur ficàtum”. Che significa “fegato di animale (generalmente oca o maiale) ingrassato con fichi”, una ghiottoneria per i romani, come testimonia Orazio nelle Satire. In greco la stessa cosa si diceva “èpar sykotòn” (la ipsilon greca pronunciatela come la ü del tedesco über).

Insomma era capitata anche allora quella “sostantivazione” dell’aggettivo che è capitata oggi con il personal computer, che tutti chiamano “personal”.

Come poi ficàtum sia diventato fícatum, e poi fécatum, e poi fégato, è stato oggetto di studi molto approfonditi. Gli interessati possono consultare il solito studioso tedesco (M.L. Wagner, “Nochmals über die Frage ficàtum – fícatum”, in “Romanische Forschungen” LXIV (1952) pp. 405-408). A parte il fatto che non in tutte le lingue romanze questo cambio di accento è avvenuto: pensiamo al veneto “figà” e al romeno “ficàt”.

Aspetti gastronomici a parte, il fegato è stato sempre un organo misterioso, esoterico. Forse per la sua capacità di autorigenerarsi. Fatto sta che gli etruschi (e quindi i romani) lo utilizzavano per trarre auspìci, e vi era addirittura una scienza legata all’interpretazione dei segni sul fegato degli animali sacrificati. Tra le antichità etrusche esiste perfino un modello di fegato in bronzo, con aree chiaramente delimitate a scopi didattici.

Sapete, nessuno mi toglie dalla testa (ma non ne ho le prove) che quel gruppo “ie” all’inizio della parola “iecur” indichi qualcosa di sacro, di sacerdotale. Ho nell’orecchio le parole “ieràtico”, “Ierusalèm”. Una tesi sostenibile col cuore, ma non col cervello, perché la radice linguistica che indica il sacro in realtà è “hier-“.

Alla ricerca delle origini di iècur facciamo un tuffo di quattromila anni, quando gli Ari, verso il II millennio avanti Cristo, invasero l’India da nord-ovest. Nella loro lingua, l’indo-ario che nella sua forma più nobile divenne il sànscrito, il fegato si chiamava yakrt. Nella diaspora linguistica che diede origine alle lingue cosiddette indo-europee, yakrt divenne iequrt, da cui chiaramente iècur.

Esaminato il sostantivo andiamo a esaminare l’aggettivo. Ficàtum, dicevamo, assonante con il greco sykotòn (con l’accento diverso, perché ai romani le tronche non piacevano). Sykotòn deriva da sykon, il fico. E inevitabilmente nel lessico popolare greco questo frutto andò a designare quella parte che distingue le femminucce dai maschietti. Come poi accadde anche, con piccole modifiche, nella nostra lingua.

Però, a consultare il Rocci, per accorgersene bisogna già sapere il greco. A scanso di prematuri (o tardivi?) turbamenti delle menti liceali, infatti, il suddetto vocabolario riporta, tra le definizioni di sykon: “per gynaikèion aidòion, Ar., Pax 1350”. Dove Ar. sta per Aristofane e Pax per la sua commedia “La pace”, scritta nel 421 avanti Cristo. Cosa vuol dire gynaikèion aidòion? Vuol dire “parte vergognosa femminile”.

E qui mi sono venute alcune considerazioni. Cos’è questa storia delle parti vergognose? Sono andato a prendere la Bibbia (Genesi, 2,25): “E l’uomo e la sua moglie erano ambedue ignudi e non ne aveano vergogna”. E ancora, dopo aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male: “Allora si apersero gli occhi ad ambedue e s’accorsero che erano ignudi; e cucirono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture” (Genesi, 3,7).

Il che vuol dire che l’interruttore che ha fatto scattare la vergogna è stato il peccato originale. Quelle parti che prima erano sacre, anzi, più sacre delle altre perché per mezzo di esse “saranno una stessa carne”, sono scadute nella vergogna.

Già, ma che c’entrano i greci? Per loro ci fu Promèteo, a disubbidire agli ordini divini regalandoci il fuoco. Ma lui fu punito con un’aquila che gli mangiava il fegato (e dàgli!) mentre era incatenato a una roccia. Mica gli fu data la vergogna!

Riprendo in mano il Rocci. Cerco “aidòios” e trovo: 1) venerabile, degno di rispetto, venerando; 2) verecondo, vergognoso. Da una parte “da venerare”, dall’altra “da nascondere”. E mi chiedo: è forse scattato anche nella cultura greca l’interruttore che scattò nella tradizione giudaico-cristiana? E se sì, perché non me ne sono accorto?

Se c’è qualcuno che si intende di quegli interruttori, mi mandi una mail, ché così ne facciamo un altro titbit.


Chi ha paura del Tutto cattivo?

Non so quanti vi risponderanno giusto, se fate un sondaggio. Ma certamente non tutti attesteranno che la parola “pànico” in origine non è un sostantivo ma un aggettivo. Così come “personal” per “personal computer”, “panico” sta per “timor panico”.

E viene da Pan, il dio della natura. Andiamo un pochino più a fondo: il nome di questo dio deriva a sua volta dall’aggettivo greco “pas”, al neutro “pan”, che significa “tutto”.

Quindi Pan, nella concezione greca, è la forza vitale che sta dietro – che sta dentro – a tutto il creato (nella concezione cristiana esiste l’eresia del panteismo, da pan con la minuscola). Se volete accostarvi un tantino al mistero di Pan, guardatevi il film australiano “Picnic a Hanging Rock”.

Ma, e allora? C’è da aver paura di Pan? Dipende. Chiediamolo alle Ninfe, quelle delicate fanciulle che abitavano i boschi e i fiumi e le fontane, e che nessuno sa se fossero vergini o no. Quando Pan compariva tra di loro, mezzo uomo e mezzo capro ma inequivocabilmente armato di attributi virili formidabili, cosa pensate che provassero, fuggendo? Tremarella? Timore? Timor panico!

A volte ritornano

In principio era la parola. E la parola era potente; specialmente se si trattavadi un nome.

Pare che gli dei, i faraoni e i dignitari dell’antico Egitto, oltre ai nomi da tutti conosciuti, ne avessero uno segreto. E che lo tenessero ben nascosto, perché chi lo avesse scoperto, pronunziandolo, poteva assumere i poteri del titolare.

Narra una storia di quelle parti (papiro Chester Beatty XI del British Museum: ne esiste una copia a Torino) che la dea Iside, per venire a sapere il nome segreto di Ra, il dio supremo, lo fece pungere da un serpente da lei stessa creato. L’antidoto, disse che glie lo avrebbe dato soltanto se lui le avesse confidato il suo nome nascosto. E il povero Ra dovette cedere… Purtroppo per noi, il nome sul papiro non fu scritto.

Bene: questa è una delle prime strane analogie che troviamo tra i tempi antichi e quelli moderni. Provate a chiedere l’accesso a un qualsiasi sistema elettronico contenente dati “classificati” (riservati). La prima domanda che il sistema vi pone è: identificazione (ovvero, nome) e password. Se non sapete rispondere, non c’è niente da fare: potete anche farlo mordere da un virus, ma quel sistema vi negherà per sempre l’accesso al potere dell’informazione.

Ma dicevamo dell’antico Egitto. Verso il quarto millennio avanti Cristo, i sacerdoti cominciarono a rendersi conto che la parola detta entra da un orecchio ed esce dall’altro. Avevano un bel pronunziare maledizioni contro chi nei prossimi secoli avesse violato la tomba del faraone; ma, allora come oggi, “verba volant”. Fu così che inventarono la scrittura, quei meravigliosi segni dal significato inizialmente ideografico e successivamente fonetico che furono detti geroglifici – ovvero “sacre incisioni”. Peccato che la grande maggioranza dei potenziali profanatori non sapesse leggere.

(Flash-back nel futuro, sullo schermo di una macchina elettronica moderna: da dove viene l’uso delle icone – la manina che si sposta, il pennello che dà il colore, la cassettiera da toccare per accedere ai file?)

Fu davvero così che nacque la scrittura? Probabilmente no. Più prosaicamente, nacque dalla necessità di classificare e contabilizzare oggetti preziosi, capi di bestiame, derrate alimentari. Lo testimoniano migliaia di tavolette di argilla che costituivano gli archivi reali delle città sumeriche e assiro-babilonesi.

Eccoci arrivati: proprio nella terra di Sumer, dove si incontrano il Tigri e l’Eufrate, nacque la scrittura. Era il 3500 avanti Cristo. Migliaia di anni prima, forse proprio qui Adamo ed Eva disubbidirono al Padreterno, e proprio di qui Caino fu esiliato “ad est dell’Eden”. Proprio di qui, dalla città di Ur, partì Abramo verso la Terra Promessa, preceduto forse di qualche secolo da popolazioni che lontano dai fiumi non potevano vivere, visto che si insediarono lungo le rive del Nilo.

La prima scrittura “cuneiforme” dei Sumeri subì trasformazioni relativamente rapide, passando ai vicini Persiani, Assiri e Babilonesi. I geroglifici egiziani invece, nati verso il 3100, rimasero sempre uguali (con qualche sporadica aggiunta) per più di cento generazioni, fino agli anni di Cristo.

Poi, la memoria del loro significato si perse, finché una compagnia di soldati napoleonici, durante la campagna d’Egitto del 1799, non trovò, presso Rosetta, una grossa pietra di basalto nero. Su essa, duemila anni prima, i sacerdoti egiziani avevano pensato bene di esprimere, in geroglifico, demòtico e greco, la loro gratitudine per i benefici ricevuti dal sovrano Tolomeo V Epifane.

Era fatta: in assenza di computer ci vollero 23 anni, ma alla fine Champollion riuscì a decifrare il mistero dell’Egitto. Un momento, però: abbiamo detto demotico? Niente paura: significa “popolare”, un tipo di scrittura usata per scopi amministrativi e documenti privati per un intero millennio (da sette secoli prima a tre secoli dopo Gesù Cristo). Molto “corsiva”, molto legata e difficilissima da leggere. Chissà se anche allora era prediletta dai medici.

Ma, ahimé, di notazioni ce n’era anche una terza (che poi, in termini di uso, sarebbe la seconda). Nei primi tempi, i geroglifici erano scolpiti nella roccia. Ma presto si scoprì la possibilità di sfruttare il papiro, una pianta palustre simile alla canna, per fabbricare fogli di carta da scrivere, anche se non in formato A4. E allora, nelle penne e nei pennelli dei sacerdoti, i geroglifici si fecero stilizzati, il serpente divenne una specie di zeta: nacque così la scrittura “ieratica” (sacra), che convisse con la geroglifica fino alla fine.

Ma torniamo ai segni più belli e misteriosi, i geroglifici classici. Guardandoli, una domanda è abbastanza spontanea: qual è il senso di lettura? Secondo autorevoli studiosi, la lettura deve andare contro la direzione verso cui guardano le figure. Basandoci su questo, nei prossimi tre paragrafi faremo un po’ di “fantagrafologia”, chiedendo agli egittologi seri di chiudere un occhio (l’occhio Udjat, ovviamente) sulle nostre considerazioni.

Considerazioni che parlano di un’altra inquietante analogia con il mondo moderno. In parecchie iscrizioni, per evitare che a fine riga si dovesse tornare indietro a vuoto e ricominciare a capo della riga successiva, si usava la scrittura cosiddetta “bustrofèdica”, cioè che imita i buoi che arano un campo.

Per esempio: una riga con figure rivolte a sinistra (e che quindi si legge da sinistra a destra) era seguita da un’altra con figure rivolte verso destra. Per cui, il tempo di ritorno al margine sinistro non era a vuoto, ma era un tempo effettivo di lettura.

Pensateci bene: non è questo il metodo di scrittura che usano le moderne stampanti ottimizzate? Naturalmente quello che è rimasto è solo il metodo, non il risultato: non è che da una riga all’altra le “p” diventino “q” e le “b” diventino “d”. Fine delle considerazioni “fanta”.

In quegli anni lontani, la scrittura era parte ideografica e parte fonetica. Cioè, a un segno poteva corrispondere un concetto o un oggetto (come ancor oggi accade in Cina); oppure un “fonèma” (diciamo, una sillaba, come le lettere dell’alfabeto sanscrito che, in assenza di vocali esplicitamente indicate, si leggono accompagnate da una “a” breve); o finalmente, nelle epoche più tarde, una lettera dell’alfabeto.

Il primo alfabeto completo, di 32 lettere, fu scritto nel 1300 avanti Cristo su tavolette di argilla a Ugarit, un porto commerciale della Siria. È quello che, con qualche modifica, fu adottato dagli Ebrei.

I Fenici lo semplificarono in 22 lettere e lo diffusero in tutto il Mediterraneo: intorno al 1000 avanti Cristo esso passò in Grecia per diventare, nel giro di mezzo millennio, l’alfabeto ufficiale di Atene, quello classico di 24 lettere che studiamo ancor oggi.

Tra parentesi, fu proprio in quel mezzo millennio che si passò dalla tradizione orale a quella scritta, quando Omero (o chi per lui) cominciò a mettere per iscritto i racconti di guerre e di eroi che per diversi secoli erano stati tramandati a voce.

Poi, due strade, con diverse diramazioni. Da una parte, una variante dell’alfabeto greco, con un segno nuovo per la “F”, fu adottato dagli Etruschi e diede origine a quello latino; dall’altra, l’alfabeto greco originò quelli cirillici adottati nei Paesi slavi.

Al tempo di Giulio Cesare, l’alfabeto latino arcaico, che aveva 21 segni, si arricchì della “Y” e della “Z”. Nel corso di sette od otto secoli, dall’Alto Medioevo al Rinascimento, vi si aggiunsero la “J”, la “U” e la “W”, e si arrivò così alle 26 lettere dei moderni alfabeti occidentali.


Tutto scorre

Panta rhèi, tutto scorre; anzi, visto che “panta” è il neutro plurale di “pas”, tutte le cose scorrono. Questa sintesi estrema del pensiero di Eràclito è ormai nota a tutti, specie dopo il libro di Luciano De Crescenzo. Meno noto certamente è il frammento di poesia, sempre di Eràclito, che esprime lo stesso concetto. Ve lo dò in greco, translitterato alla buona (cioè, come si legge; a parte la negazione oùk, che non mi piace scrivere ùk come appunto si legge); e dopo, anche tradotto in italiano. Allora: “Potamòis tois autòis embàinomen te-kài oùk embàinomen, èimen te-kài oùk èimen”. Ovvero: “Sugli stessi fiumi ci imbarchiamo e non ci imbarchiamo, (ci) siamo e non (ci) siamo”.

Chàire, kecharitomène

Trovo che poche cose siano interessanti quanto il leggere autori antichi nella lingua originale. Mi è venuto sott’occhio il Vangelo di Luca nel testo greco. E mi sono messo a caccia di curiosità riguardanti il rapporto tra il testo italiano e quello originale. Premetto che sono napoletano, quindi originario della Magna Grecia. Ovvero, di fronte al greco, mi posso porre come Salman Rushdie, indiano, di fronte all’inglese. Ho preso di mira il “quadro” dell’Annunciazione. Cominciamo col vederne il testo greco, nella mia solita translitterazione artigianale, con la punteggiatura nella simbologia moderna ma con le maiuscole solo per i nomi.
Attenti agli accenti, che, dal punto di vista greco, sono praticamente tutti sbagliati: servono solo a indicare dove cade… l’accento tonico italiano: scrivere correttamente kaì invece di kài (come si legge) potrà piacere a un cinòfilo, ma non ci aiuta a leggere correttamente.
Il testo italiano non lo riporto proprio: presumo che lo conosciate a memoria; o che comunque abbiate un Vangelo da consultare. Il fatto avviene nel sesto (èkto) mese della gravidanza di Elisabetta. L’angelo Gabriele, lo specialista in annunci, fa visita a Maria, una ragazza sui 13 anni promessa a un tale Giuseppe.

“En dè tò menì tò èkto apestàle o ànghelos Gabrièl apò toù Teoù èis pòlin tès Galilàias è ònoma Nazarèt, pròs parthènon emnesteumènen andrì, ò ònoma Iosèf, ex òikou Dauìd, kài to ònoma tès parthènou Mariàm. kài eiselthòn pròs autèn èipen: chàire, kecharitomène, o Kyrios metà soù. è dè epì tò lògo dietaràchthe, kài dieloghìzeto potapòs èie o aspasmòs oùtos. kài èipen o ànghelos autè: mè foboù, Mariàm: èures gàr chàrin parà tò Theò. kài idoù syllèmpse en gastrì kài tèxe yiòn, kài kalèseis to ònoma autoù Iesoùn. oùtos èstai mègas kài yiòs ypsìstou klethèsetai, kài dòsei autò Kyrios o Theòs tòn thrònon Dauìd toù patròs autoù, kài basilèuesei epì tòn òikon Iakòb èis toùs aiònas, kài tès basilèias autoù oùk èstai tèlos. èipen dè Mariàm pros ton ànghelon: pos èstai toùto, epèi àndra où ghighnosko? kài apokrithèis o ànghelos èipen autè: pnèuma àghion epelèusetai epì sé, kài dynamis ypsìstou episkiàsei sòi; diò kài tò ghennòmenon àghion klethèsetai yiòs Theoù. kài idoù Elisàbet è synghenìs soù kài autè synèilefen yiòn èn ghèrei autès, kài oùtos mèn èktos estìn autè tè kaloumène stèira; oti oùk adynatèsei parà toù Teoù pàn rhèma. èipen dè Mariàm: idoù è doùle Kyrìou; gènoito mòi katà to rhèma soù. kài apèlthen ap’autès o ànghelos.

Vedete come la struttura sintattica greca si adatta al parlare narrativo semitico, con quelle frasi pluri-articolate dalle innumerevoli congiunzioni (kài). Facciamo ora qualche commento.

Salta immediatamente all’occhio il carattere non greco (nel senso di greco classico) del testo, per via dei nomi, totalmente estranei alla tradizione ellenica. Davide, poi, Luca è costretto a scriverlo Dauìd, per via della mancanza della lettera V nell’alfabeto greco. C’era, una volta, il “digamma”, una specie di F che si leggeva come l’inglese w, ma al tempo di Omero (sette secoli prima di Luca) era già scomparso dai testi scritti; evidentemente, però, non dalla memoria… linguistica: pensate al greco òinos, che in latino divenne vinum, e al greco èrgon, che in tedesco divenne Werk e in inglese work.

Ma torniamo a Luca. E al saluto dell’angelo a Maria. E a quella parola, “kecharitomène”, tradotto normalmente “piena di grazia”, il “gratia plena” di San Girolamo. Viene da “charitòo” (parente di “charìzo”), che vuol dire gratificare, compiacere. Dalle ultime due sillabe sembra un participio presente, ma c’è il tipico raddoppiamento iniziale che denunzia un evento del passato. Siamo quindi di fronte a un participio perfetto: non “tu, fanciulla, che stai ricevendo la grazia”, ma “tu che fosti riempita di grazia” – evento già compiuto, “perfetto” e irrevocabile. Gabriele si rivolge a Maria in modo insolito, rispetto al normale atteggiamento (piuttosto maschilista) dell’uomo ebreo verso la donna. In termini pagani (greci), quel kecharitomène potrebbe essere inteso come “tu che sei piaciuta al dio” (notare: non “a Dio” ma “al dio”). In bocca a un angelo rocchettaro, il saluto poteva suonare “Ciao, carinissima!”.

Un altro verbo, syllambàno, compare due volte nel testo. Deriva da syn-lambàno, ovvero “raccolgo”, “metto insieme” ed anche, di solito accompagnato da qualche precisazione di luogo, “concepisco”. L’evangelista Luca è noto per il suo scrupolo di far fare sempre bella figura a Gesù: ma anche a Gabriele, stando a questo protovangelo. Infatti Gabriele, per non urtare la sensibilità della fanciulla Maria, dice “syllèmpse en gastrì”, cioè, “raccoglierai nel ventre”. Più avanti, per dire di Elisabetta che concepì in vecchiaia, dirà “synèleifen”, senza specificare dove. Invece, parlando da uomo a uomo con Zaccaria, il marito di Elisabetta, aveva detto esplicitamente “en tè koilìa”, cioè nell’utero. Così pure Luca fa dire ad Elisabetta, parlando con Maria da donna a donna: “Il bambino mi è sobbalzato en tè koilìa”. Tra parentesi notiamo qui un ètimo misterioso. Koilìa, prima che utero, significa cavità, vuoto. Da questa parola sembra provenga il latino “coelum” e l’italiano “cielo”.

Una breve nota su “e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe”. Per sempre è “èis toùs aiònas”. Aiòn significa tempo, eternità. Mettiamoci un bel digamma, aiwòn. Passiamolo in latino, aevum. Buttiamolo in padella, e avremo cucinato l’evo. Quello da cui proviene il Medioevo.

E siamo alla risposta di Maria. La traduzione ufficiale dice: “Come è possibile? Non conosco uomo.”. Punteggiatura stravolta: l’originale ha virgola, punto interrogativo; qui abbiamo punto interrogativo, punto. Lasciamo stare il “non conosco uomo”, che, come è noto, nel linguaggio biblico significa “non sono stata a letto con nessuno”. E’ il tono che non quadra. Piuttosto acido, cerebrale, “logico”, tendente a mettere in dubbio, in modo non benevolo, le parole dell’angelo. Il testo originale, mi sembra molto più fresco, quasi pervaso da una malizia bambina, il tono di una sfida tra ragazzi: “Come potrò, se non conosco uomo?”.

E infatti Gabriele non dà segno di notare malevolenza in Maria. E la butta sul solenne: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo”. Lasciate che mi soffermi su questo bellissimo verbo “episkiàsei sòi”. San Girolamo nella Vulgata dice “obumbrabit tibi”, espressione che mi ricorda Virgilio (va bene, Tìtiro) sotto le fronde del faggio. Invece il greco mi ricorda l’ombra immensa dell’astronave di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Ed anche l’ombra della nuvola che accompagnò per quarant’anni Israele nel deserto. Quindi, bene la traduzione ufficiale.

Chiudiamo con una frase tradotta molto sbrigativamente con “Nulla è impossibile a Dio”. D’accordo, ma il testo originale dice “oùk adynatèsei parà toù Teoù pàn rhèma”: letteralmente “non resta impotente presso Dio qualsiasi parola”. Vediamo questo “rhèma”. Dalla sua forma arcaica, Vrhema (col solito digamma), venne fuori il latino “verbum”. A rhèma si ricollega ovviamente “retorica”. A sua volta rhèma deriva da rhèo, il famoso “scorrere” (vi risparmio la diarrea, la piorrea e la logorrea). Allora: rhèma come parola che fluisce dalla bocca, come volontà esplicitata. Altrove (inizio del Vangelo di Giovanni) troviamo “logos” tradotto come “parola”. Radicale diversità. Da rhema come volontà, passiamo a logos come mente creatrice, intelligenza. “En archè èn o Lògos” viene tradotto da San Girolamo “In principio erat Verbum”, con un clamoroso colpo di scena semantico. Ma ormai, tre secoli dopo la redazione del Vangelo di Giovanni e un secolo prima dell’inizio del Medioevo, si era persa la ricchezza culturale dei Romani di un certo livello. E ancor oggi molte anime semplici (òi ptochòi tò pnèumati, i poveri di spirito delle beatitudini) si chiedono cosa significhi l’espressione “la Parola era Dio” (kài Theòs èn o Lògos). E non vogliamo neppure pensare a quelli che si chiedono come fa Dio ad essere un verbo: avevano sempre creduto si trattasse di un nome proprio!

Per fortuna, nel V secolo, cioè appena iniziato il Medioevo (ufficialmente, anno Domini 476), uno scrittore latino di origine cartaginese, Marziano Capella, impostò il ciclo educativo di base per gli intellettuali del tempo, articolato in Trivio e Quadrivio. In particolare, il Trivio comprendeva Dialettica (elaborare i concetti), Grammatica (strutturare i concetti in discorso) e Retorica (enunciare i concetti a parole). Dialettica era sinonimo di Logica. E qui il nostro cerchio si chiude.

Fanta-cosmogonìa

Finalmente qualcuno mi ha mandato una mail riguardo al problema “parti vergognose” o “parti degne di rispetto” trattato alla fine delle considerazioni su “Fegato e dintorni” (vedi qualche titbit più sopra). Si tratta di un autore e interprete che opera nel mondo dello spettacolo. Vincenzo Thoma, nato a Roma e da sette anni stabilitosi a Montreal, Canada. Mi ha scritto:

Ho trovato qualcosa che conferma la tua intuizione sull’ambiguità del termine “aidòios”. Cito da “Il silenzio del corpo” di Guido Ceronetti (…): “Il senso vero di “ta aidòia” è le cose che ispirano reverenza, timore reverenziale (in quanto potenze, contagio vicino dell’invisibile). Dice bene Chénier (“Notes philologiques”, p.758, Pléiade) che traducendo “parti vergognose” si fa una cattiva traduzione. La parola greca esprime rispetto che protegge, non vergogna che si rintana”. Spero di aver contribuito un po’ alla tua interessante ricerca.

E mi ha scritto anche, Vincenzo, “complimenti per una cultura leonardesca, da vero uomo del Rinascimento”. Accetto, indegnamente: con un complimento così posso tirare avanti per almeno sei mesi.

Devo dire intanto che mi è piaciuta molto l’espressione “contagio dell’invisibile”, perché – magari a sproposito – in “aidòios” io vedo un’alfa privativo più “id”, una delle radici di “orào” (io vedo): ovvero, appunto, in-visibile.

E poi ho passato un po’ di tempo a meditare sulla Bibbia. Non capita tutti i giorni, eh? Intanto mi è parso di capire che la chiave della faccenda non sta nelle parole “e non ne aveano vergogna”, ma nel “si apersero gli occhi”. Cioè “prima” vivevano tranquillamente nudi, come fanno ancor oggi i cani, i gatti e i cavalli. E “dopo” si resero conto che alcune parti del corpo sono più “sacre” di altre e che quindi meritano di essere protette da una sorta di “tempio”, nel caso specifico una cintura di foglie. Del resto Adamo si nasconde all’Eterno che verso sera passeggia nel giardino di Eden non perché si vergogna ma perché “ho avuto paura (per aver disobbedito a un tuo ordine)”.

A questo punto mi sono posto alcune domande. Ma davvero l’Eterno non voleva che i due esseri creati a sua immagine e somiglianza mangiassero del frutto dell’albero del bene e del male? O forse, ordinando di non mangiarne, suggeriva loro una via per sviluppare quella libertà che sola avrebbe consentito di delegare all’uomo l’immane compito di creare e gestire la storia del mondo? E come si fa ad esercitare la libertà senza saper distinguere il bene dal male? Poteva il creato essere affidato alle mani di un giardiniere ignorante o, peggio, di una creatura con gli occhi velati dall’incapacità di discernimento? D’altronde, l’Eterno avrebbe avuto altri mezzi per impedire che l’uomo mangiasse il frutto fatale. Per esempio, come non tutti sanno, al centro del giardino, oltre all’albero della conoscenza del bene e del male c’era l’albero della vita. E fu proprio a causa di questo, e non tanto come punizione, che i nostri sciagurati progenitori furono scacciati dall’Eden. Sta scritto infatti: “Poi l’Eterno Iddio disse: ‘Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, quanto a conoscenza del bene e del male. Guardiamo ch’egli non stenda la mano e prenda anche del frutto dell’albero della vita, e ne mangi, e viva in perpetuo’. Perciò l’Eterno Iddio mandò via l’uomo dal giardino d’Eden, perché lavorasse la terra donde era stato tratto. Così egli scacciò l’uomo; e pose a oriente del giardino d’Eden i cherubini, che vibravano da ogni parte una spada fiammeggiante, per custodire la via dell’albero della vita” (Genesi 3, 22-24).

E infine è venuta fuori LA domanda: ma perché l’Eterno YHWH ci ha creati? Trascorso più di mezzo secolo, del catechismo pre-conciliare mi ricordo solo l’inizio: “Chi ci ha creati?”. Non mi pare però che al “Who?” seguisse un “Why?”. Già, perché? Se, nel nostro piccolo, noi siamo fatti a sua immagine anche nel modo di pensare, potremmo rispondere che esistere in senso assoluto (ego sum qui sum) non è molto gratificante. Noi esistiamo solo in senso relativo: se siamo amati, considerati, o anche solo pensati. Questo è noto all’uomo da diverse migliaia di anni. Su questo si basava la “damnatio memoriae” dei romani, per cui veniva cancellata ogni traccia che potesse evocare il ricordo di una persona o di un popolo condannato dal potere vigente. Esempio lampante di questo, la cancellazione da tutti i documenti e da tutta la statuaria del nome di Akhenaton, il faraone “eretico” che tentò di instaurare in Egitto il culto del disco solare. Per fortuna gli egiziani erano talmente grafomani che la manovra non riuscì; per sfinimento degli scalpellini, verrebbe da dire. E allora: aveva senso per YHWH continuare la sua esistenza senza che nessuno lo pensasse?

Tra parentesi (ma qui finiamo nella fanta-cosmogonìa), tutto questo parlare dei fatti accaduti nell’Eden potrebbe addirittura mettere d’accordo creazionisti ed evoluzionisti. YHWH potrebbe aver creato l’uomo, sì, a sua immagine e somiglianza, ma subordinato a una “password”, a tempo o a comando, senza la quale la creatura non avrebbe avuto il potere di governare la storia. Dopo anni (centinaia di migliaia? milioni?) di evoluzione, la password potrebbe essere scattata (il frutto proibito mangiato), dando così inizio all’avventura “manageriale” dell’uomo.

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