THE SMASHING MACHINE E GLI ALTRI FILM DI NOVEMBRE

Eccomi con i film che ho visto a novembre. Il più rilevante (The Smashing Machine di Benny Safdie) ha tutta la recensione qui, gli altri li trovate per esteso su Letterboxd.

The Smashing Machine
★★★★

Non mi aspettavo certo un biopic sportivo come tanti, ma in ogni caso The Smashing Machine mi ha sorpreso molto. È un film che si sdoppia: metà docu-drama, metà discesa nella psiche di un wrestler che tenta di sopravvivere. Safdie non racconta un eroe da palestra, ma un uomo spezzato: il protagonista è l’ex wrestler e pugile di MMA Mark Kerr, interpretato da Dwayne Johnson, e il film procede per accumulo di match, spogliatoi, hotel squallidi, giornate colme di farmaci e ricordi in frantumi.

Johnson è la sorpresa più grossa del film: via la muscolatura scolpita da blockbuster, via la sua aura da star invincibile. Qui lo vediamo trasformato: protesi, trucco, postura spenta, occhiaie profonde — non “The Rock”, ma un uomo fragile che cammina sul filo della distruzione. È una recitazione mimetica che sorprende, una performance in sottrazione

La struttura del film alterna diversi punti di vista — Mark nel ring, Mark fuori dal ring, la moglie (Emily Blunt) che cerca di salvare quel che resta, gli amici, i demoni dell’oppio e della fame di gloria. Questa molteplicità di sguardi contribuisce a fare di The Smashing Machine più un “quasi documentario” che un biopic romanzato — e questa scelta lo rende autentico e duro. 

I punti di forza stanno nella brutalità visiva che non è spettacolo ma realismo sporco, nella regia nervosa di Safdie che evita ogni forma di glorificazione del dolore, e nell’onestà narrativa: la vittoria non sembra un trionfo alla Rocky, ma un contratto firmato col dolore. Il grande limite è che questa fedeltà al reale — e a volte alla frustrazione — lascia spazio a momenti di vuoto: la narrazione talvolta si sfilaccia, la catarsi non arriva, e chi cerca riscatto facile potrebbe sentirsi tradito.

In sintesi: The Smashing Machine non è un film comodo, né un omaggio patinato alla pelle e al sudore. È un pugno nello stomaco. Se siete stanchi delle storie di successo facili e cercate qualcosa che racconti il prezzo della fama e dell’autodistruzione con la sincerità di una cinepresa che non fa sconti, questo – con Dwayne Johnson così — è un film da vedere.

The Roses
★★★

Che Jay Roach e Tony McNamara (lo sceneggiatore di La favorita e Poor Things) affrontassero un reboot de La guerra dei Roses sembrava una follia. E invece I Roses funziona: è un gioco al massacro elegante, più velenoso che fisico, con Olivia Colman e Benedict Cumberbatch perfettamente sintonizzati su un registro di crudeltà domestica sottile e spietata.

A House of Dynamite
★★★★

Mi sono affrettato a vedere A House of Dynamite su Netflix avendo una enorme stima di Kathryn Bigelow (peraltro regista di The Hurt Locker e Zero Dark Thirty, cioè i pesi massimi del thriller politico-militare) e mi aspettavo il solito crescendo di tensione ed esplosioni. Invece ho trovato un gioco diverso: sì, la minaccia nucleare è al centro, ma la struttura moltiplicata dei punti di vista la rende più un thriller “come quelli di una volta” che un semplice action. 

Frankenstein
★★★

Non è quello che ti aspetti da un film “sul mostro di Frankenstein” — e forse è proprio questo che lo rende interessante. Il Frankenstein del 2025 (su Netflix) è un adattamento gotico e ambizioso, scritto e diretto da Guillermo del Toro, che affronta il mito classico con la lente della tragedia familiare e della creazione fuori controllo. 

The Ugly Stepsister
★★★★

The Ugly Stepsister è un body horror che prende la fiaba di Cenerentola e la rovescia: qui non è Cenerentola l’underdog che alla fine vince, ma la sorellastra “brutta” che combatte per essere vista. La protagonista è Elvira (Lea Myren), che vive all’ombra della bellissima (e sprezzante) Agnes/Cinderella (Thea Sofie Loch Næss, ma che cognome fighissimo). Per avanzare socialmente, l’unica scelta valida è quella “reale” — sposare il principe Julian (Isac Calmroth) — perciò la matrigna (Ane Dahl Torp) usa mezzi brutali e chirurgici per rendere Elvira “accettabile”. 

The Long Walk
★★★★½

Partendo dal romanzo culto di Stephen King (firmato sotto lo pseudonimo Richard Bachman), The Long Walk di Francis Lawrence trasforma la sua folle marcia della morte in un film distopico, brutale e ipnotico. Cinquanta ragazzi, uno per ogni stato, sono costretti ogni anno a camminare senza pause a una velocità minima: chi rallenta troppo, o si ferma, viene fucilato sul posto e l’ultimo che resta in vita vince una cospicua somma di denaro e un “desiderio”. 

After the Hunt
★★★½

After the Hunt, per me, è uno dei film più ambigui di Guadagnino: un thriller psicologico ambientato nel mondo accademico dove ogni personaggio sembra muoversi in una zona grigia. Alma Imhoff (Julia Roberts), docente stimata ma fragile, si ritrova coinvolta nel caso di presunte molestie che vede implicati il collega Hank (Andrew Garfield) e la studentessa Maggie (Ayo Edebiri). Guadagnino non cerca un colpevole né una verità: preferisce mostrare un sistema emotivo e morale incrinato, in cui nessuno è davvero affidabile.

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