STO PENSANDO DI FINIRLA IN UN SOCIAL DILEMMA (PER TACER DEL NOLAN)

Ciao, sono Pietro e queste sono le #recensioniflash dell’ultimo mese. In pratica ci stanno dentro tutti i film di cui avete tanto sentito parlare sui soscial (adoro quelli che pronunciano i social “soscial”), quindi , come dire, pochi e sempre i soliti. Ma andiamo senza meno a incominciare. Col botto, come dire.

TENET (Cristopher Nolan, 2020)

Per me – come immagino per molti altri – il ritorno in sala post-Covid (o durante-Covid, non sottilizziamo) significava una tappa quasi obbligatoria: Tenet. E ieri sera si è creata l’occasione.
Apprezzo moltissimo Nolan e le sue riflessioni sul tempo applicate al cinema, ma qui nonostante tutta la buona volontà, il meccanismo mi è sembrato per la prima volta inceppato. A Nolan piacciono i Bond-movie, questo è chiarissimo. A Nolan piace anche ibridare quel genere con la fantascienza hardcore di Interstellar, e questo andrebbe pure bene (gli è riuscito benissimo in Inception, per dire). Qui c’è troppo, o troppo poco.
Abbiamo un uomo (“il Protagonista”, John David Washington) che tiene sulle sue spalle di agente della CIA “rinato” dopo un’operazione-test la salvezza della realtà-come-la-conosciamo e viene assegnato a una misteriosa organizzazione chiamata “Tenet”. Tra Mumbai, Londra, Positano, Oslo e Tallinn è tutta una corsa contro il tempo per fermare una misteriosa “manovra a tenaglia temporale” che qualcuno dal futuro sta facendo con l’aiuto di Sator, un trafficante di armi russo (Kenneth Branagh) che sembra aver scoperto la tecnologia che permette di invertire l’entropia degli oggetti. Insomma, non sto a menarla con la trama, da che mondo è mondo è vero che i film di azione/spionaggio hanno solo bisogno di quello che Hitchcock chiamava il McGuffin, un pretesto anche banale per mettere in moto la storia.
Qui però casca il primo asino. Non so se sia la mancanza del fratello Jonathan alla sceneggiatura, Ma Christopher Nolan è sempre più cerebrale e concede sempre meno allo spettatore. Dai e dai, la corda si spezza. Il McGuffin qui è una teoria scientifica probabilmente avallata da decenni di studio di fisica teorica e quantistica da parte del regista ma che allo spettatore medio arriva come una supercazzola infinita. La scelta di non dare un nome al protagonista (e di chiamarlo appunto “il protagonista”, manco fossimo in un manuale di narratologia) abbinata alle evidenti indicazioni date a Washington di essere il più inespressivo e sottotono possibile (perché in BlacKKKlansman invece usciva fuori molto più potenziale) equivalgono a tirarsi le martellate sui coglioni da solo. Non c’è possibilità di identificazione, la sospensione dell’incredulità è spesso messa a dura prova proprio dagli stessi dialoghi velocissimi e densi di concetti scientifici che alla fine risultano involontariamente comici. L’unico che salva la baracca è Robert Pattinson nel ruolo di Neil (un amico forse di lunga data del protagonista… lo sapremo solo alla fine), che fa un po’ troppe faccette ma chi sto a prendere in giro, è sempre più bravo.
Ovviamente dal punto di vista puramente visivo Nolan mette in scena sullo sfondo della sua amata architettura brutalista una serie di sequenze da antologia: l’aereo cargo che esplode a Oslo, l’inseguimento invertito sulle strade di Tallinn, il bunjee jumping a Mumbai, la corsa coi catamarani nel golfo di Amalfi, lo stesso combattimento finale con squadra rossa e squadra blu che vanno avanti e indietro grazie al passaggio nei tornelli che invertono il tempo (i tornelli, LOL).
Però nemmeno una volta viene da trepidare per la distruzione del mondo, nemmeno una motivazione viene data al cattivo, nemmeno una volta viene di tifare per i buoni, di “tenerci”. Tutto è solo pedissequamente spiegato, poi al limite non è che devi capire, devi “sentire”. E quindi niente: bei paesaggi, fantastiche sequenze girate “all’indietro”, però ti prego Nolan, fai pace con tuo fratello e scendi di qualche migliaio di metri dall’iperuranio dove ti sei ficcato. #recensioniflash

BLACK IS KING (Beyoncé Knowles, 2020)

Avete visto Black Is King, il film di Beyoncé su Disney+? Ci sono alcuni buoni motivi per vederlo. Il primo motivo è scontato, ma è lei: Queen Bey. Difficilmente riuscirà a superare questo picco come artista multimediale dopo che è già stata – solo negli ultimi 10 anni – madre universale, attivista, femminista, divinità, donna turbocapitalista oltre che icona pop. Già Lemonade era una bella esperienza, ma qui siamo su un altro livello. Black Is King è la visualizzazione dell’album musicale dell’anno scorso che a sua volta era un tributo all’ultima versione di Lion King che a sua volta io non ho visto perché in generale schifo come la morte nera i remake “live action” della Disney. Comunque, la traccia narrativa del Re Leone è più che altro uno spunto per raccontare la storia di un principe nero umano e del suo viaggio alla scoperta di sé. Ma Black Is King non è un film narrativo. Invece è un curioso mix tra videoclip di un’ora e mezza, documentario naturalistico, cinema di poesia in un guazzabuglio affascinante che è stato il progetto del cuore di Beyoncé per tutto il 2019. La musica è ovviamente molto influenzata dall’afrobeat e da tutti i musicisti nigeriani, camerunensi, ghanesi etc. che partecipano al progetto. L’apparato visuale è un caleidoscopio di outfit eccezionali, afrofuturismo alla Wakanda e soprattutto tanta, tanta danza afro. Il che mi ha fatto venire in mente quell’anno che ho fatto danza afro e all’ennesima lezione in cui mi stava scoppiando il cuore mi è uscito il sangue dal naso spruzzando goccioline rosse sul resto della cumpa danzante. Comunque. La danza afro non fa per me se la faccio io, ma vederla è sempre bello. Black Is King. Segnatevelo. O se no fate come volete, ma poi Beyoncé vi viene a prendere a casa e vi sculaccia. #recensioniflash

THE KING OF STATEN ISLAND (Judd Apatow, 2020)

The King of Staten Island è un altro di quei film che hanno – diciamo così – risentito del Covid. Ma è l’ultimo film di Judd Apatow, che io amo, a cinque anni da Trainwreck. E rischia di essere il suo film più bello – se la gioca con Funny People. Siamo sullo stesso territorio, commedia fiume sui generis (dura due ore e venti), accumulo di scene che potrebbero far ridere ma che hanno un fondo amarissimo, dialoghi lungi, quasi estenuanti, ma veri e scritti da dio. Apatow ha scritto il film con Pete Davidson, star di SNL e protagonista del film. Il film si basa in gran parte sulle esperienze reali di Davidson, che ha perso il padre l’11 settembre 2001. In pratica il protagonista Scott è il classico uomo-Apatow, un adulto rimasto allo stadio preadolescenziale, uno scoppiato pieno di tatuaggi che vive con la madre (Marisa Tomei, eccezionale) e non combina un cazzo se non fumare nello scantinato con i suoi amici, di tanto in tanto scopare con un’amica che frequenta dai tempi delle elementari, parlare della sua geniale idea di un ristorante con annesso studio di tatuaggi. La sorella parte per il college, lui in uno dei suoi momenti di cazzeggio finisce “quasi” per fare un tatuaggio a un ragazzino del posto, il padre del bambino bussa incazzato nero alla porta di casa, poi però si innamora della madre di Scott e parte un giro di relazioni e di scazzi alcuni pesanti, altri semplicemente esilaranti. Quello a cui assistiamo, come in tutte le storie che si rispettino, è la caduta nell’abisso e la risalita di Scott, che sembra non farsi toccare dai problemi della vita ma in realtà semplicemente ha dei problemi mentali e non sa come esprimere il suo disagio. Come tutti i film di Apatow richiede una certa resistenza, ed è come assistere ad una lunga seduta di terapia, ma la bravura e la sincerità di Davidson vincono tutto. Da citare anche Bill Burr e Pamela Adlon nei ruoli di Ray, il nuovo fidanzato della mamma e la sua ex moglie. C’è anche un piccolo ma significativo ruolo per Steve Buscemi. Insomma, si ride e si piange… si ringe, come direbbe Alessandro Apreda. Sono contento di averlo visto, lo consiglio per questa estate di merda. #recensioniflash

WEATHERING WITH YOU (Makoto Shinkai, 2019)

Ultimi giorni di vacanza, tempo di recuperoni. Weathering With You di Makoto Shinkai, era da circa un anno che lo bramavo intensamente. Posto che gli pesa un po’ sulle spalle il confronto con un successo planetario come Your Name, Weathering With You ha dalla sua una trama un filo più lineare, che mescola shintoismo, fantasy, noir e dramma sociale. C’è Hodaka, sedicenne in fuga dalla “soffocante” isola di Kozu-shima che approda a Tokyo in cerca di un lavoro per restare a galla, viene coinvolto nel ritrovamento di una pistola (la sottotrama poliziesca), trova lavoro come giornalista per un periodico di misteri e leggende urbane, infine incappa in Hina, la “sunshine girl” che con la forza della preghiera può fermare la pioggia che cade incessante sul Giappone. Hina a sua volta ha acquisito questo potere dopo essere rimasta orfana: vive in un appartamentino con il fratello minore. Insieme i tre escogitano un redditizio business “scaccia pioggia”, ma tutto questo uso dei poteri ha un prezzo molto alto da pagare. Weathering With You, come è facilmente comprensibile fin dalle prime inquadrature, è un film liquido. In ogni singola inquadratura c’è acqua, gocce, pozzanghere, fiumi, temporali, vapore, neve. Come sempre Shinkai è un maestro assoluto nel rappresentare la Tokyo contemporanea in anime, regalando scorci urbani di grandissima potenza visiva. La storia dei ragazzi senza tutore ricorda molto anche certo Kore’eda (ma per fortuna con esiti meno drammatici). I RADWIMPS (la rock band giapponese che già aveva musicato Your Name) tornano con le power ballad che ormai ci aspettiamo in ogni film di Shinkai. Persino Mitsuha e Taki (i protagonisti di Your Name) hanno un cameo in questo nuovo film, il cui unico difetto, se vogliamo, è appunto quello di essere una spanna sotto il predecessore. Per gli amanti dell’azione, però, c’è un lungo inseguimento su un Honda Super Cub (motorino mitologico) che fa girar la testa da quanto è animato bene. Cercatelo, vedetelo, amatelo. #recensioniflash

BILL AND TED FACE THE MUSIC (Dean Parisot, 2020)

È passato un po’ di tempo dalle ultime #recensioniflash, che dite? Allora, oggi vi intrattengo con un altro film molto atteso, che al pubblico italiano dirà probabilmente poco e nulla ma che per chi aveva 20 anni nel 1990 è qualcosa. Bill & Ted Face the Music è praticamente la riproposizione degli iconici personaggi di Keanu Reeves e Alex Winter 30 anni dopo, ma sempre storditi uguale. Se Bill e Ted vi dicono poco, pensate a Beavis e Butthead ma più ingenui, oppure pensate a Wayne e Garth di Wayne’s World, o ai Tenacious D, ma più stupidi. C’è tutta una tradizione di commedie hard rock / stoner che parte proprio da Bill & Ted Excellent Adventure, il primo film della serie (1989). Keanu Reeves doveva ancora spaccare col suo primo ruolo importante in Point Break (ma aveva già fatto un bel po’ di filmetti dimenticabili, più Le Relazioni Pericolose di Frears). Alex Winter aveva una parte nei Lost Boys di Schumacher, poi boh. Il primo film è una summa del film liceale anni ’80, tra hard rock e compiti di storia risolti viaggiando nel tempo. Il secondo (sì, c’è anche un secondo film, con colonna sonora di Slayer, Megadeth, Primus, Faith No More) vede Bill e Ted sconfitti da una versione robot di loro stessi andare all’inferno e sfidare la morte. Questo nuovo film – evidentemente un tributo di Reeves e Winter al ruolo che li ha lanciati – è ancora più assurdo, non sto a raccontare la trama che è al tempo stesso un casino senza senso e una banalità terrificante (in pratica un episodio di Scooby Doo stiracchiato per 90 minuti), ma è bello sorridere ancora per le svisate in air guitar, il linguaggio del corpo di Bill e Ted sempre uguale, la colonna sonora dirompente. A un certo punto nella stessa inquadratura abbiamo Bill e Ted, le loro figlie uguali a loro, la Morte, Mozart, Jimi Hendrix, Louis Armstrong e Kid Cudi. Ah, e un robot che sembra un incrocio tra il T-1000 e il Mr. Freeze di Schwarzenegger. Bill e Ted per tutto il film difficilmente dicono qualcosa più di “Duuuude”, “Totally” o “Yeah”. Agli effetti speciali Kevin Yagher che ha fatto un lavoro eccellente nella versione 90enne di Bill e Ted (ovviamente viaggiano nel tempo *e* all’inferno anche in questo episodio). Conviene aspettare la super scena “col volume a 11” dopo i titoli di coda. E a un dato momento appare anche Dave Grohl. Mi pare di aver detto tutto, traetene le vostre conclusioni.

I’M THINKING OF ENDING THINGS (Charlie Kaufman, 2020)

Ho finalmente concluso la visione di I’m Thinking of Ending Things, il nuovo film di Charlie Kaufman. Perché dico finalmente? Ci sono volute tre sere, una notevole attenzione e diverse re-visioni di alcune scene. Mai nessun film come questo beneficia veramente della distribuzione in streaming dove – vivaddio – appena finito il film si può andare a rivedere una determinata sequenza per capire se si era compreso bene il senso. Perché un senso c’è, anche se non sembra (ed è il tipico senso di Kaufman per le storie cerebrali). Guardando il film vengono in mente sequenze di Lynch e Aronofsky, inevitabile quando si spinge sul pedale dell’onirico. Non farò spoiler, racconterò solo le linee principali della trama: ci sono un lui e una lei (Jesse Plemons e Jessie Buckley) che per circa la prima mezz’ora di film viaggiano in macchina sotto la neve per andare a trovare i genitori di lui (lei però vorrebbe mollarlo). Lei monologa interiormente, lui parla di diverse cose (e intanto sembra quasi che colga i pensieri di lei). Nel frattempo vediamo ogni tanto un vecchio bidello nell’esercizio delle sue funzioni. Poi c’è una lunga sequenza che sembra trasformare il tutto in un incubo alla Aronofsky, appunto: la visita alla fattoria e alla casa di campagna dei genitori di lui (bravissimi Toni Collette e David Thewlis) in cui la realtà spazio temporale sembra disgregarsi senza alcun motivo apparente e ci sono inquietanti accenni di horror tipo scantinati con porte graffiate, messaggi apparentemente dall’aldilà, etc. Poi si torna in macchina per il viaggio di ritorno a casa, e qui parte il momento super-lynchiano con la strada di notte, i fari, un dialogo di mezz’ora in cui vengono citati pari pari stralci di una recensione di Una moglie di Cassavetes, disquisizioni su David Foster Wallace, una sosta a una gelateria che mette i brividi, per arrivare poi al gran finale nel vecchio liceo di lui dove i nodi vengono al pettine in un misto di piani di realtà differenti, balletto, musical, citazionismo, metacinematografia, sequenze animate e titoli di coda che sono una sfida ai miopi. I’m Thinking of Ending Things – ve lo dico – è uno di quei film che dopo averlo visto vi precipitate su Internet a cercare le spiegazioni di questa o quella scena – soprattutto del finale. Anche se, a dire il vero, è sufficiente guardarlo un paio di volte (due e mezza, via) per capire bene che cosa Kaufman ha voluto raccontarci. La cosa sorprendente è che poteva essere uno di quei film con il colpo di scena – ribaltone finale alla Usual Suspects, solo che Kaufman se ne sbatte dei colpi di scena e procede come in una narrazione liquida, immota, in cui sei tu che devi nuotarci dentro per capire. Particolarmente utile, in una certa sequenza a casa dei genitori di lui, andare avanti a botte di fermo immagine per scoprire tutti gli indizi che aiutano a capire il finale. In due parole, un film che ti lascia di merda. Ma in senso buono, eh. Guardatelo. #recensioniflash

MIGNONNES (Maimouna Doucoure, 2020)

Mignonnes, su Netflix. Come posso cominciare… vedetelo. Fatelo entrare nella top 10 dei film più visti. Se lo merita. Parliamo del film, il merdone teniamocelo per dopo. Mignonnes è il primo lungometraggio di Maimouna Doucoure. Una regista donna e nera che scrive e dirige il suo film in un mondo dominato da maschi bianchi. Doucoure, di origine senegalese, racconta storie che pescano dalla sua infanzia e dai racconti di centinaia di preadolescenti che ha intervistato per un anno e mezzo prima di scrivere e realizzare il film. La sua protagonista, Amy, è una undicenne che vive in una banlieue parigina, più o meno abbandonata a sé stessa (il padre è in Senegal a procurarsi una seconda moglie, la madre lavora e non ha molto tempo per i figli). Amy vive un conflitto tra la cultura del suo paese di origine e quello che vede a scuola, in particolare osservando un gruppo di coetanee ossessionate dalla danza che si fa chiamare le Mignonnes (le piccoline, in francese). Amy vuole farsi accettare da Angelica, Jess, Coumba e Yasmine, vorrebbe ballare con loro. Tutto il film mette in scena in maniera magistrale la tensione tra due modi diversi di intendere il femminile, filtrati attraverso lo sguardo di una bambina che sta per diventare una donna ma non sa ancora che tipo di donna e non ha nessuno strumento critico per scegliere. Alle preghiere musulmane si annoia, ruba un cellulare, va in fissa per il twerking, convince le compagne a fare balletti sempre più provocanti. Nella scena più cringe del film si fa una foto estremamente inappropriata e la pubblica on line. Infine, al tanto agognato concorso di danza, si trasforma in una sorta di Nicki Minaj in sedicesimo e guida le compagne in un balletto sessualmente esasperato, goffamente provocante, decisamente imbarazzante. Doucoure non indugia mai un secondo di troppo sugli aspetti di sessualizzazione – a me il film è sembrato sobrio e anche commovente per quanto riguarda la deriva esistenziale della protagonista. Ci sono dei momenti di pura poesia (vestiti che sembrano animarsi da soli, presenze fantasmatiche) e momenti di sincerità assoluta (le dinamiche tra le amiche / rivali, i pestaggi nel cortile della scuola, le confessioni, il desiderio di non essere considerate bambine che porta a scelte sbagliatissime). E veniamo al merdone. Questo film – che peraltro ha vinto ben due premi al Sundance Festival – è stato pubblicizzato da Netflix con una locandina sicuramente un po’ trash, che lo equiparava a quei film tipo Step Up (da cui Mignonnes evidentemente mutua la struttura del racconto) ma con le ballerine preadolescenti in pose zoccoleggianti. Quella scena nel film c’è, ma contestualizzata nella visione, è evidente che si tratta di una scelta azzardata di un gruppo di bambine convinte che quel tipo di atteggiamento sia quello “giusto” da mostrare per fare strada. Vabbè, comunque da quel poster l’uragano di #CancelNetflix che una serie di politici repubblicani ha lanciato su Twitter (sorpresa, però: c’è dentro anche la democrat Tulsi Gabbard, da lei non me lo aspettavo). A dimostrazione del fatto che questi non hanno nemmeno visto il film, hanno visto la locandina (ora cambiata) e le due righe di riassunto di Netflix (che come tutti sanno sono capaci di riassumere Il Padrino con una frase tipo “Al matrimonio di Connie le cose non vanno per il verso giusto: le famiglie si scontrano”). Invece Mignonnes è una piccola grande sorpresa, anche se ha un finalone simbolico un po’ spiattellato che mi ha fatto storcere il naso – ma mi direte poi voi. #recensioniflash

THE SOCIAL DILEMMA (Jeff Orlowski, 2020)

Siete comodi comodi? Adesso vi spiego perché The Social Dilemma, il documentario su Netflix di cui state tanto sentendo parlare è una cagata. (Oh, avete ragione, è liberatorio cominciare i post con un giudizio così tranchant, avremo tempo dopo per le sfumature. Che figo).
No, dai, a parte gli scherzi. The Social Dilemma è un documentario interessante a metà, riuscito a metà, inserito in un contesto che per sua natura lo depotenzia (in sintesi, una cag… ahahah, no dai).
Ci sono alcune persone serie, molto competenti dato che hanno lavorato direttamente su algoritmi, politiche di monetizzazione, software engineering e quant’altro di Facebook, Twitter, Pinterest, Instagram, YouTube e compagnia bella. Queste persone vengono intervistate ed evidenziano luci ed ombre (ma più che altro ombre) relative al funzionamento dei social “dietro le quinte”, qualcosa che di certo uno che lavora nel campo sa benissimo, ma che probabilmente la gran parte degli utilizzatori dei social magari ancora non sa. Si dicono delle cose interessanti e sacrosante (una su tutte, ad esempio, non è che i social “rubano i nostri dati”, ci fanno la birra con i dati, ma rubano la nostra attenzione e i nostri comportamenti per costruire modelli predittivi che alla lunga ci bloccano in un cortocircuito cognitivo in cui anche una fake news ben piazzata diventa difficile da distinguere e… ma vabbè, non voglio entrare nel merito, ve lo vedrete, vorrei parlare solo del film).
Se The Social Dilemma si limitasse a questo sarebbe un ottimo speciale di un’ora, allarmante, che spiega cose, che mette in guardia. Ma no. The Social Dilemma decide di montare le interviste con degli intermezzi di docufiction TERRIFICANTI (peccato per Skyler Gisondo, già visto in Santa Clarita Diet che non è nemmeno male) in cui si mostra la famiglia Brambill… cioè, la famiglia Smith alle prese con il tentacolare mondo dei social e degli smartphone cattivi. Le bestemmie volano alte durante la visione, e vi assicuro che non sto esagerando. La sensazione è quella di vedere delle sequenze di Ralph Spacca Internet girate in live action, con tanto di sottofinale politico/apocalittico/distopico.
L’altra cosa che rovina The Social Dilemma (più che altro che fa un po’ ridere) è il contesto di visione, nel palinsesto di Netflix (che produce, anche). Non si può non riconoscere che anche Netflix stesso fa parte di quei “giganti tech” il cui unico obiettivo è di apprendere dai tuoi comportamenti per alimentare la sua IA. Alla fine tutto sembra una scaramuccia del tipo Mark Zuckerberg cattivo, Reed Hastings bravone.
(Peraltro un po’ come me che sto postando una recensione di The Social Dilemma su Facebook… ladidà, ladidà).
Bah, comunque vedetelo andando avanti veloce sulle parti della famiglia Smith e magari scoprite qualcosa di interessante che non sapevate. Sapevatelo! #recensioniflash

ENOLA HOLMES (Harry Bradbeer, 2020)

È sempre la solita storia / ma è un po’ anche un’altra storia.
Questo in sintesi l’approccio di molti produttori di contenuti di intrattenimento. Sempre più di frequente i produttori (che ricordiamolo, ci mettono il cash) hanno bisogno di partire da qualcosa di ben noto per ricamarci su e proporre qualcosa di (parzialmente) inedito. In questo modo vai a solleticare una fanbase già presente o comunque un effetto nostalgia per mettere un piede nella porta, e poi provi a calare il tuo asso nella manica. Questo meccanismo (che per esempio è alla base di molte delle produzioni Netflix) l’ho visto lampante in un film che ho guardato ieri e che ho trovato illuminante in tal senso. Enola Holmes, ovvero un intrattenimento abbastanza onesto per ragazzi che strizza l’occhio in modo molto vago ai fan di Sherlock Holmes e prova a rimpinguarne l’immaginario inserendo nella lista dei personaggi una ipotetica sorella minore. Quindi: dato uno Sherlock Holmes, cosa succederebbe se… ci fosse un altro personaggio a lui legato che voi non conoscete e di cui noi vi raccontiamo la storia parallela? Abbastanza innocuo, con una bella prova di Millie Bobby Brown (che però mi ha fatto andare a guglare se per caso, dopo Fleabag, ci fosse una legge non scritta che obbliga le protagoniste femminili londinesi a rivolgersi ammiccando allo spettatore ogni 1,8 minuti) e una trama non idiota per quanto a misura di adolescente. Sherlock, come è giusto che sia, sta molto sullo sfondo (e comunque Henry Cavill, LOL) e c’è un giusto quid di tensione, mistero e azione (che però mi ha fatto pensare che forse adesso dovrei rivedere “Piramide di paura” e fare un confronto di massima). PS: ho comunque scoperto dopo che il regista è lo stesso di Fleabag, solo che Millie Bobby Brown non è Phoebe Waller Bridge… #recensioniflash