Partiamo con una nota molto folcloristica: Boyhood è il più recente dei soli 11 film della storia del cinema che ha conseguito un punteggio di 100/100 su Metacritic (l’indice che sintetizza tutti i giudizi dei critici cinematografici). Gli altri, per darvi un’idea, sono Il gattopardo, Viaggio in Italia, Il conformista, Au hazard Balthazar, Il Padrino, Fanny e Alexander… Insomma, ci siamo capiti. Per Richard Linklater finire in mezzo a Visconti, Rossellini, Bertolucci, Bresson, Bergman & C. deve essere stata una cosa da infarto. Ma perché Boyhood mette d’accordo (quasi) tutti, e cos’ha fatto Linklater per meritare questo?
In buona sostanza, quando esci dalla sala dopo aver visto praticamente 165 minuti di documentario su una famiglia lower-middle-class americana, la prima domanda che ti fai è “ma come ho fatto a non rompermi le balle a metà film?”… E qui sta il trucco. Voglio dire, il trucco di marketing che emerge già dal trailer (Linklater ci ha messo 12 anni a fare il film, 3 o 4 giorni di riprese ogni anno con lo stesso attore che cresce nel tempo e bla bla bla) può essere sufficiente a incuriosirti e a spingerti in sala. Un’altra cosa è mantenere alta l’attenzione per quasi tre ore.
L’impostazione di fondo è quasi crepuscolare: seguire i piccoli moti dell’animo attraverso la crescita e la progressiva maturazione del personaggio principale, il bambino/adolescente/uomo Ellar Coltrane che comunque dà un’ottima prova di attore (e la cosa non poteva assolutamente essere data per scontata). Sulla base di questo canovaccio da diario intimo, Linklater costruisce 12 cortometraggi da 10-15 minuti l’uno nei quali segue il protagonista a casa, a scuola, per strada, durante i momenti di gioco e di confronto con gli adulti di riferimento e i coetanei.