BASTA CHE FUNZIONI

Da piccolo, come tutti i maschietti, ero molto influenzato dalla figura di mio padre. Quello che faceva lui era in un certo senso magico, ricco di fascino, misterioso. Eppure, fin dalla più tenera età, il fatto che lui – l’ingegnere – oltre a fare sentisse il bisogno di spiegare quello che faceva, toglieva alle cose gran parte del loro fascino. Toglieva l’aura di mistero, che era poi l’unica cosa che mi interessava.

Se malauguratamente andavo a trovarlo alle mitiche (ora non più esistenti) “Ferriere” di corso Mortara, dopo un primo impatto di qualche minuto in cui le barre di acciaio incandescente, le scintille, il grasso, i macchinari mi sembravano degni di pagine dai libri di Tolkien – Agnelli come Saruman e la FIAT come Isengard – lui trovava il modo di rompere l’illusione costringendomi a ridurre tutto il visibile ad alcune equazioni complesse che lui illustrava con sguardo rapito. Mentre io, ovviamente, volevo solo fuggire.

Ecco perché alle elementari, quando mi chiedevano “cosa fa tuo padre”, non rispondevo mai “l’ingegnere”. Mi vergognavo. Preferivo dire che “lavorava col ferro“.
Era molto più barbarico, così.

Mio padre era un uomo che sapeva come attirarti a sé, come catturare la tua attenzione. Ma al tempo stesso, quando ti aveva nelle sue spire, era difficilissimo sfuggirgli. Ed era proprio nel momento in cui ti avvicinavi fino al punto di non ritorno che lui attaccava con la spiegazione. Il “funziona così”. Io non ho mai voluto sapere come funzionano le cose. A me bastava che funzionassero. Bastava sapere che le cose erano lì, e si potevano usare in modo creativo.

Non ero uno di quei ragazzini che si appassionano a montare le rotaie dei trenini elettrici o le piste per le corse delle automobiline. Lui sì. Lui si appassionava a montarle, mentre io facevo finta di ascoltare i suoi approfondimenti sulla curva e la velocità del mezzo, e su come il treno o la macchinina avrebbero potuto o meno deragliare. Io intervenivo a pista completata, simulando spettacolari incidenti o posizionando sulle rotaie del treno le bamboline tipo fiammiferino. Dell’elettricità che comandava i trenini non me ne è mai fregato nulla. Ancora adesso, per me è un fatto magico che quando premi l’interruttore si accende la luce.

Nei primi anni ’80, quando gli altri bambini giocavano a Centipede, io ero costretto a programmare in Basic la mia personale versione del gioco (ovviamente in bianco e nero e con dovizia di bug). Perché lui ci teneva più alla poesia della programmazione che non al risultato finale. L’unico vero punto di contatto “digitale” si è verificato quando ha portato in casa un software che consentiva di progettare giochi di avventura testuale. Con quello ci ho passato interi anni.

Col senno di poi, ho il sospetto che per lui sia sempre stato un po’ frustrante avere un figlio totalmente privo di spirito analitico. Al massimo mi interessavo a come funzionavano gli effetti speciali cinematografici (sangue finto, colpi di arma da fuoco, ustioni, gole tagliate e simili). Una scienza non esatta, comunque. O a cose per lui incomprensibili e inutili, come imparare a memoria You Spin Me Round dei Dead or Alive, imitare alla perfezione il trucco dei Sigue Sigue Sputnik o ridisegnare le copertine degli album di Grace Jones.

Dal punto di vista scolastico è sempre stato difficile avere un punto di contatto. Lui voleva spiegarmi la matematica come la vedono gli ingegneri, mentre per me il livello massimo (cui sono tuttora legato) era quello delle mele da contare. Le fette di torta per spiegare le frazioni erano già al di là delle mie possibilità di comprensione.

Più di recente, una regressione ai tempi del (suo) liceo ci ha fatto avvicinare più di quanto siamo mai stati. Il greco, il latino e (dio ci scampi) il sanscrito sono stati i suoi grandi ritorni di fiamma degli ultimi tempi. Non che io ne fossi così appassionato. Ho fatto il classico, ho fatto le mie versioni e ho imparato le mie declinazioni. Poi sono stato felice di abbandonare le lingue morte al loro destino. Ma erano pur sempre codici che servivano a fini comunicativi, di espressione. Lingue che hanno prodotto una letteratura che amavo appassionatamente.

E così mio padre è finito, in tempi di pensione, a vestirsi con una lunga tunica color pastello e ad ammannire ai passanti pillole di lingua e letteratura greca armato di bastone nodoso, lavagna a fogli mobili e marker. In fiere tematiche, ovviamente. Per quanto non mi sarebbe spiaciuto vederlo come un moderno Diogene Laerzio, aggirarsi per le strade di campagna a fermare la gente e raccontar loro il senso della vita.

Oggi, quando vedo la sua foto “in costume” sulla sua vecchia scrivania, accuratamente depurata di tutte le equazioni e le linee di programmazione, il suo sguardo non mi parla più di algebra, di differenziali o di statistiche complesse. Mi dice semplicemente “gnòthi seautòn“.
E per me, tanto basta.

10 risposte a “BASTA CHE FUNZIONI”

  1. azz ma adesso quello che metto sul blog lo ripropone pari pari anche qua!? Beh grazie dei commenti, allora… è sempre un piacere riceverli, anche qui

  2. molto bello Pietro… a me è andata un po' meglio, padre giornalista e grandi tirate su come i giovani non sanno più scrivere in italiano! in compenso io spiego a lui cose tecnologiche di cui non si ricorda da qui a tre minuti

  3. Ti capisco, anch'io ho un padre ex disegnatore meccanico FIAT e non sai quante volte mi sono sorbito pipponi sul funzionamento del motore a scoppio e su pulegge e ingranaggi.. solo molto più tardi ho capito che quello era il suo modo di volermi bene

I commenti sono chiusi.