take away

Sbuffi di vapore dalla bocca. I giorni più freddi dell’anno. I giorni peggiori per questo tipo di affari.
Solo Tom Waits per riscaldarmi le orecchie con un massaggio ruvido.
Il posto non è lontano, ma sembra un’eternità che metto un passo davanti all’altro. Niente macchina, certo. Mantenere un profilo basso.

Ripercorro con la mente ogni singolo momento che mi ha portato a questo.

E’ una questione di necessità. Quando arrivi a non avere più nulla, puoi accettare qualsiasi cosa.
Ecco, è qui a destra. Poi nel vicolo. Se possibile il gelo è aumentato. Cerco di sfuggire alla luce cruda dei lampioni, di evitare i fari delle rare macchine che passano. Profilo basso. In questo quartiere c’è poco da scherzare.
Inosservato, apro la porta del locale. Il cinese è là, in fondo, dietro una cortina di birre. Gli occhi fissi su qualche spazzatura televisiva. Finge di non notarmi.

Poi, senza staccare lo sguardo dallo schermo:

– Sei tu?
– Sì. Ti hanno avvertito.
– Non è una cosa immediata.

Il suo italiano è quasi perfetto, ma va a singhiozzo, come una voce in una rete senza campo.

– Lo so.
– Allora torna tra un quarto d’ora.

Esco dal locale, incerto se dargli le spalle o no. Percepisco il suo sguardo tra le mie scapole.
Un gruppo di arabi discute qualche porta più in là. Quando passo, smettono di parlare e mi fissano.
Prima non c’erano.
Non è il caso di farsi prendere dalla paranoia. Saranno usciti da uno dei loro covi per fumatori di shisha.
Ma prima non c’erano.
Mi allontano di poco, scelgo un triangolo di erba, ghiaia e panchine. Senza luce.
Faccio le telefonate che servono.
Gli arabi sono sempre là. Non mi volto a guardarli, ma li sento. Purtroppo non c’è altra via.

– Capo, hai una sigaretta?

Stavo quasi per passarli. Troppo bello per essere vero. Sfilo le cuffie che mi isolano dal mondo.
Addio, Tom.

– No.

Lo guardo fisso negli occhi.
Lui sostiene il mio sguardo. Per una frazione di secondo, un sorriso sghembo gli distorce il viso. Ha capito per chi lavoro.

As-salam alaikum, capo…
Wa alaikum salam.

Ma non è ancora finita. Quando rientro, il cinese è sempre là. Solo che stavolta è in piedi, e mi fissa. O forse sta semplicemente guardando fuori.
Faccio per parlare, quando lui estrae il pacco da un ripiano alle sue spalle. E’ più grosso di quello che mi aspettavo.

– Sei sicuro?
– Sì.

Faccio quello che devo fare. I biglietti, di piccolo taglio e non segnati, si trasferiscono frusciando dalla mia mano alla sua.

– Ci vediamo, cinese.
– In un’altra vita, forse… Buona serata.

Il suo augurio suona vagamente macabro. Ma è solo un’impressione. Sono troppi anni che il cinese fa affari con noi.
Ora il vicolo è vuoto, e anche sulla strada principale non passa più nessuno.

Riavvolgo Tom Waits e lo riascolto daccapo. Riempie un vuoto. Forse è finita così.
Forse potrò tornare a casa senza problemi.
Forse potrò arrivare, ancora una volta, a domani.

***

– Allora? Sei stato dal cinese?
– Sì… e tu? Hai preparato tavola?
– Ovvio! Cos’hai preso?
– Involtini, ravioli, riso alla cantonese… solite cose.
– Sei un tesoro. Non avevo proprio voglia di cucinare, stasera.

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