VIAGGIO NEL KORE’EDA-VERSE

Il mese di aprile vi riserva una raccolta di #recensioniflash un tantino atipiche. In effetti, ho passato quasi tutto il mese a visionare (con tanto amore) tutta la filmografia di Kore’eda Hirokazu, un regista immenso che qui da noi conoscono magari gli addetti ai lavori, quelli che seguono attentamente i festival o gli appassionati di cinema orientale, e che invece merita ripetute visioni ed estasi cinefile. Il suo ultimo film, da cui sono partito, ha sfiorato l’Oscar. Ma tutti gli altri sono piccole gemme perfette. Per me, che ho sempre praticato più che altro il cinema giapponese di genere (anime e horror soprattutto, qualche chanbara moderno e poi i grandi autori del passato come Ozu, Kurosawa, Oshima e Mizoguchi), è stata una vera sorpresa scoprire un regista che è al pari dei maestri. Quindi mettetevi comodi e… enjoy the reviews.

SHOPLIFTERS (Kore’eda Hirokazu, 2018)
Shoplifters (Manbiki Kazoku) stava lì da un po’, la mini locandina mi osservava dal mio browser, e io sotto sotto sapevo che sarebbe stato uno dei film più belli che avrei potuto recuperare del passato 2018. Forse proprio perché lo sapevo, un po’ aspettavo. Probabilmente ero partito col piede sbagliato con Kore’eda Hirokazu. Avevo visto un film un po’ lento ed esile, credo tratto da un manga (Air Doll), e non mi aveva colpito più di tanto. Invece questo è un film quieto ma potente, per il quale possiamo scomodare senza problemi il termine capolavoro. Adesso capisco perché lo paragonano a Ozu, adesso capisco perché nelle interviste lui dice sì, bello Ozu ma io sono influenzato anche da Loach. Adesso capisco chi è il miglior regista di bambini in circolazione. Adesso sto scaricando torrent come un pazzo da oscuri siti russi per recuperare tutta la sua filmografia. Perché se Shoplifters è solo l’ultimo di una serie di film così, io li devo vedere tutti. Il tema: la famiglia come scelta personale, la vita fatta di espedienti, una serie di piccoli grandi colpi di scena rivelati poco a poco, un amore diffuso anche dove i soldi mancano, piccoli crimini, metà film quasi idilliaco, l’altra metà duro come un pugno nello stomaco. Alla fine tutto ritorna nella legalità, ma al prezzo di disperdere l’amore (e comunque è stato bello e utile aver amato, per ognuno dei personaggi). Un affare di famiglia, insomma, come recita – per una volta in modo non becero – il titolo italiano. I primi piani finali dei bambini svelano un intero mondo di emozioni. Roma di Cuaròn è bello, ma Shoplifters è assolutamente eccezionale. Peccato per il mancato Oscar. #recensioniflash

I WISH (Kore’eda Hirokazu, 2011)
Proseguo nella mia intenzione matta e disperatissima di recuperare tutta la filmografia di Kore’eda sparandomi I Wish (Kiseki). Il film è la storia di due fratelli (anche i due attori sono fratelli) con genitori separati. Uno vive con la madre e i nonni a Kagoshima, l’altro col padre musicista a Fukuoka. Le due città sono collegate da una linea di treni veloci Shinkansen, e a quanto credono i bambini (in particolare Koichi, il più grande) vedere due Shinkansen incrociarsi sviluppa una tale energia da far avverare i desideri. Il desiderio di Koichi è ovviamente quello di riunire la famiglia. Tra amici di scuola, pomeriggi a mangiare patatine e bere té, piccoli problemi familiari, la cenere del vulcano Sakurajima, Koichi e Ryu decidono di incontrarsi proprio là, dove i desideri si avverano. Il racconto di formazione è delicatissimo e ha quella punta di amaro che è inevitabile – non tutti i desideri si possono avverare – e anche questa volta ho incontrato forse l’unico grande regista di bambini contemporaneo. Meraviglioso il montaggio di dettagli e frammenti temporali al passaggio dei treni. E alla fine non è detto che la cenere del vulcano si debba per forza posare su tutto. #recensioniflash

LIKE FATHER LIKE SON (Kore’eda Hirokazu, 2013)
Kore’eda Hirokazu, terza puntata: continua l’esplorazione della filmografia di quello che ormai è il mio nuovo regista giapponese preferito. Like Father Like Son (Soshite Chichi ni Naru) è un altro di quei film che esplora il concetto di famiglia, tema evidentemente centrale per Kore’eda. Il punto di partenza stavolta è un espediente narrativo che può sembrare ritrito: lo scambio di neonati subito dopo il parto. Ma ancora una volta lo sviluppo è assolutamente non banale e molto profondo nello scavo delle emozioni. Ci sono due famiglie, i Nonomiya, upper class, padre algido e super-esigente, appartamento di design a Shibuya, e i Saiki, piccolo borghesi un po’ caciaroni ma affettuosi, con un negozio di materiali elettrici a Maebashi. I rispettivi figli, Keita e Ryusei, diventano una sorta di “campo di gioco” per il dilemma del film: la famiglia è quella “di sangue” o è quella costituita dalla frequentazione e dall’amore quotidiano? Ryota Nonomiya imparerà a sue spese che – ovviamente – è buona la seconda. Seguiamo le due famiglie nel difficile percorso di “scambio di figli”, in cui Kore’eda con poche inquadrature riesce a veicolare mille sfumature emozionali. Alla fine si piange e si capisce che 1) i bambini insegnano ai genitori più di quanto i genitori insegnino ai bambini e 2) l’amore va solo a sommarsi e più si è a crescere i bambini, meglio è. Un altro colpo di fulmine. #recensioniflash

NOBODY KNOWS (Kore’eda Hirokazu, 2004)
Quarta incursione nel cinema di Kore’eda Hirokazu che ormai è diventato un’ossessione personale. Nobody Knows (Dare mo Shiranai) è un colpo al cuore, tratto da una storia vera successa a Sugamo, un quartiere periferico di Tokyo, negli anni ’80. Di nuovo, uno studio su una famiglia e su come questa riesce a sopravvivere anche “monca” (e soprattutto su come non sia il sangue a creare la famiglia). C’è una madre sui generis, Keiko, con quattro figli: Akira, il dodicenne protagonista, Kyoko, Shigeru e Yuki (circa 11, 7 e 4 anni). La madre è evidentemente una escort, e li lascia soli per lunghi periodi di tempo confidando nella maturità di Akira, responsabile di spese, bollette, affitto e quant’altro. Akira è l’unico figlio” riconosciuto”, gli altri tre devono stare nascosti e non farsi mai vedere fuori casa, pena lo sfratto. Un bel giorno, Keiko se ne va e abbandona i figli a loro stessi. Ogni tanto manda dei soldi. A un certo punto non ne manda più. La ritualità della famiglia si disgrega. L’infanzia si disgrega. Tutto scivola pian piano nel caos, fino a un finale agghiacciante. In tutto ciò, Kore’eda riesce a rendere una storia estremamente drammatica con leggerezza. Non intendo dire con humor e levità, anche se non mancano molti momenti di gioia e spensieratezza. Intendo che anche le situazioni più dure (e ce ne sono, nell’ultima ora di film) vengono raccontate in punta di piedi, senza spingere il melodramma, con estremo pudore. Io più continuo più sono innamorato di Kore’eda. Il protagonista Yūya Yagira ha vinto il premio a Cannes come migliore attore (credo sia stato il più giovane e forse il primo giapponese): guardate il film e capirete perché, anche se vi spezzerà un po’ il cuore. #recensioniflash

AFTER THE STORM (Kore’eda Hirokazu, 2016)
Quinto bollettino dal Kore’eda-verse, stavolta ho visto After the storm (Umi yori mo Mada Fukaku). Meno programmatico e più libero di altri suoi film, questo “Ritratto di famiglia con tempesta”, come recita il titolo italiano, è un raro e prezioso esempio di film che riesce ad essere non consolatorio e consolatorio nello stesso tempo. Cioè: a Hollywood ci sarebbe stata una scenata, qualche casino eclatante che poneva il protagonista sull’orlo dell’abisso e poi una bella riconciliazione finale. A Cinecittà più o meno lo stesso, ma con più urla e scenate isteriche e pesanti accenti romani. Ecco, no. Questa è la storia di Ryota (Hiroshi Abe, un grande), uno scrittore che ha azzeccato il romanzo d’esordio 15 anni fa e poi non è più riuscito a scrivere nulla. Ora galleggia lavorando in un’agenzia investigativa di terz’ordine, tra piccole truffe, gratta e vinci e alimenti da pagare. Infatti è divorziato, la moglie si vede con un altro uomo (ovviamente danaroso) e il figlio Shingo è oggetto del più classico dei tira-e-molla. Sta arrivando un uragano e quella notte tutti si fermano a casa dell’anziana madre di Ryota a Kiyose (ridente cittadina nella cintura ovest di Tokyo, mi piace annotare le location perché poi vado sempre a cercarmele su street view). E chiaramente durante la notte di tempesta ci saranno confronti intensi e rivelatori tra ex marito ed ex moglie, tra padre e figlio, tra madre anziana e figlio adulto, il tutto con lo spirito del padre di Ryota, morto da qualche tempo, che è ancora ben presente nel cuore dei protagonisti. Confronti che – come succede nella vita – sono utili a livello emozionale ma a livello pratico non cambiano le cose, non c’è “cambiamento” se non piccoli smottamenti di cuore, il cambiamento vero avverrà probabilmente molto tempo dopo la conclusione del racconto. Inutile dire che è un film che mi tocca da vicino, e che ha dei dialoghi che in qualunque altro contesto potrebbero essere banali, ma qui, per la maestria di Kore’eda brillano come gemme del quotidiano. Tipo (prendo una battuta dell’anziana madre): “Perché i maschi sono incapaci di vivere nel presente? Se non inseguono qualcosa che credono di aver perduto, si perdono in sogni irrealizzabili. Non ci si può godere la vita, in questo modo. Non si trova la felicità fino a che non si è capaci di disfarsi di certe cose”. E niente, come sempre, colpo di fulmine. #recensioniflash

STILL WALKING (Kore’eda Hirokazu, 2008)
Kore’eda Hirokazu come Ozu Yasujiro: il paragone nel tempo mi convinceva poco. Poi oggi ho visto Still Walking (Aruimato aruimato) e lì ho capito. In effetti, è proprio così. Se dovessi prendere ad esempio solo questo film, è come se fosse un concentrato di Ozu trasportato nel 21° secolo. Qui c’è la classica riunione di famiglia a casa dei nonni a Yokosuka nella baia di Tokyo, e chiunque può riconoscere le proprie riunioni di famiglia, con i nonni che raccontano i loro problemi, i figli ognuno con le loro famiglie e le loro storie, i bambini che osservano in silenzio. La riunione è per un’occasione speciale, in ricordo del primogenito morto per salvare un bambino in mare. Sarà ormai il dodicesimo anniversario della morte di Junpei, e Ryota (il fratello di mezzo, sposato con una vedova con figlio) e la sorella minore Chinami (quella casinista e un po’ trafficona) sono cambiati, anche se gli anziani genitori li vedono sempre uguali. Tutto il film consta di preparazione di piatti tradizionali in cucina, pranzi, cene, pennichelle, bambini che giocano fuori, bagni serali, passeggiate, visita al cimitero alla tomba di Junpei, ma in questa routine quotidiana succedono molte cose sotto la superficie. Meravigliosa Kiki Kirin (praticamente la “nonna” in tutti i film di Kore’eda) nel momento in cui svela che ogni anno invita il ragazzo ormai adulto salvato da Junpei solo per farlo sentire una merda e “avere qualcuno da odiare” per la morte del figlio. Molto Ozu anche la farfalla gialla (tradizionalmente anima di un defunto) che si posa sulla foto di Junpei. Basato su un libro autobiografico dello stesso regista. #recensioniflash

OUR LITTLE SISTER (Kore’eda Hirokazu, 2015)
Ancora dal Kore’eda-verse (no, non ho smesso). Ho visto Our Little Sister (Umimachi Diary). Questo è un film tratto da uno shojo manga abbastanza popolare in Giappone: la storia in breve è – come sempre – quella di una famiglia con delle ferite. Un padre che ha abbandonato tre figlie (Sachi, Yoshino e Chika) e che quindici anni dopo muore, lasciando come sorpresa una sorella adolescente di secondo letto alle tre protagoniste. Kore’eda ha shiftato il punto di vista dalla sorella piccola Suzu (voce narrante del manga) alla maggiore Sachi, spostando l’accento dal racconto di formazione adolescenziale alla riflessione adulta su come possono sanarsi le ferite di un’infanzia negata (abbandonate anche dalla madre, le tre sorelle si sono autogestite per anni a casa della nonna a Kamakura, con la supervisione di Sachi maturata troppo in fretta). Dirò subito che è il film che ho apprezzato meno di Kore’eda finora, perché non ha la stessa risonanza emotiva degli altri. Accoglie alcuni stilemi formali di Ozu (molte inquadrature delle sorelle fanno pensare al Maestro, che peraltro ha vissuto a lungo a Kamakura e ci è pure sepolto), ma a livello più profondo Still Walking era molto più Ozu-iano. C’è un racconto molto ondivago, emergono sporadicamente dei conflitti, ma nulla di paragonabile ad altri film di Kore’eda. In generale poco convincente, ma comunque un piacere per gli occhi (cast quasi tutto femminile e notevoli bellezze asiatiche). #recensioniflash

AFTER LIFE (Kore’eda Hirokazu, 1998)
Credevate forse avessi smesso con Kore’eda? No. In questi giorni ho visto anche After Life (il suo secondo film, noto in patria come Wandafuru Raifu, “Wonderful Life”). Ed è curioso andare così a ritroso nella filmografia di un regista da trovare un qualcosa di completamente diverso dalle opere viste finora. Qui siamo di fronte a un particolare misto di fantasy, dramma, documentario e metacinema. C’è questo casermone squallido e un po’ cadente dove lavorano degli impiegati. È lunedì, e comincia una nuova settimana di lavoro. Arrivano i “clienti”. Si tratta di persone morte da poco, che stazionano in questa anticamera dell’aldilà e – aiutati dai solerti impiegati – devono scegliere un singolo ricordo felice da portare con sé per l’eternità. Una volta scelto il ricordo (entro il mercoledì sera) gli altri giorni della settimana saranno impegnati a ricreare il ricordo su pellicola con l’aiuto di una troupe dedicata. Gli attori che interpretano i morti sono quasi tutti non professionisti, e gran parte del film è basato su interviste improvvisate sui ricordi da passare in rassegna. Ma c’è un intrigo romantico tra gli impiegati Takashi e Shiori (la bellissima Oda Erika) che avrà un risvolto inaspettato. Un film sorprendente, che nella prima metà sa di documentario, nella seconda metà mette in scena il lavoro cinematografico come creatore/conservatore di coscienza. La metafora dell’aldilà come un luogo dimesso dedito alla burocrazia (bellissimo l’archivio della vita delle persone in forma di VHS da ri-visionare) non è nuova – non lo era nemmeno nel 1998 – ma Kore’eda la rende in modo coinvolgente e poetico. E lo sfogo della triste e arrabbiata Shiori nella prima neve è una sequenza da antologia. #recensioniflash

MABOROSI (Kore’eda Hirokazu, 1995)
La fine del mio meraviglioso viaggio coincide con il primo lungometraggio di fiction di Kore’eda, Maborosi (Maboroshi no Hikari), tratto da un romanzo di Miyamoto Teru. Il film si svolge tra Osaka e la penisola di Noto, un posto abbastanza selvaggio poco più a nord. A Osaka, Yumiko (che in passato ha avuto i suoi bei problemi ad accettare la morte della nonna) è felicemente sposata con un figlio piccolo. A un certo punto, senza preavviso, suo marito si fa investire da un treno. Un suicidio inesplicabile che lascia Yumiko senza parole. Dopo qualche anno, Yumiko si risposa con un altro uomo e si trasferisce a Noto. La vita procede tranquilla e bucolica con il nuovo marito Tamio e la di lui figlia, però… c’è un però. Il buco nero del mistero della morte del primo marito la perseguita, e tornata a Osaka per il matrimonio del fratello, tutto le ripiomba addosso. Il lutto ricomincia a soffocarla, e in una sequenza lenta, onirica e impressionante Yumiko vaga sulla spiaggia intorno alla pira funeraria di uno sconosciuto chiedendosi “Perché”. Eroina quasi da tragedia greca, Yumiko si muove in questo film come una figurina trasportata da forze più grandi di lei. Il film stesso ha pochissimi movimenti di macchina, si contano sulle dita di una mano (può darsi sia l’eredità del precedente stile di Kore’eda documentarista). In sintesi, un altro tassello nell’universo narrativo di Kore’eda che evidenzia il lato spirituale delle sue storie più che quello “mondano”. Comunque eccezionale. #recensioniflash