LO STRASCICO DEL 2022

Io quando scelgo di muovermi da casa per andare a vedere un film in sala, o anche solo quando spulcio cataloghi streaming in cerca di qualcosa da vedere, spesso vado un po’ a caso. Ma quando si avvicina la fine dell’anno invece vado a spulciare le famose liste dei critici titolati per vedere quali sarebbero secondo loro “i migliori film dell’anno”, e poi se non ho visto qualcosa cerco, spulcio, vedo, e invariabilmente arrivo all’inizio dell’anno successivo che devo ancora vedermi un sacco di film. Anche quest’anno è andata così, e in questo gennaio 2023 troverete una valanga di film del 2022 che ho visto solo adesso. Andiamo a incominciare!

WHITE NOISE (Noah Baumbach, 2022)

Produci, consuma, crepa. Sembra essere questo il senso di White Noise, di Noah Baumbach, visto il primo dell’anno su Netflix. Diciamo che mi sembrava il film perfetto per iniziare l’anno in allegria.

Mi fa sorridere il fatto che su Wikipedia sia indicato come film “drammatico/horror”. In realtà è — e non potrebbe essere altrimenti — un pastiche di generi che dalla commedia grottesca arrivano al dramma esistenziale passando per alcune inquadrature che non definirei horror ma al massimo spielberghiane (nel senso di “puro distillato di cinema fantastico anni ’80 americano”) come la nube nera e tempestosa dell’evento tossico aereo centrale nel film. Peraltro il film inizia con una disamina degli incidenti d’auto e delle esplosioni nel cinema americano che è da applauso.

Ma andiamo con ordine: White Noise è la trasposizione (che tutti dicevano impossibile) dell’omonimo romanzo di Don DeLillo dell’85, che io ho letto più di 20 anni fa e sinceramente non ricordo. Leggendo in giro capisco che Baumbach ha adattato il testo (già di per sé iperdescrittivo e postmoderno) in modo fedele al 99%.

Di suo, quindi, Baumbach ci mette la direzione degli attori (tutti in stato di grazia, principalmente Adam Driver nel ruolo del professore imbolsito di “studi hitleriani”), e la visione caleidoscopica e frammentaria con cui taglia e monta le sue inquadrature.

White Noise ha una trama sui generis (professore universitario con famiglia disfunzionale vive nell’America consumistica degli anni ’80 tra paura della morte, fantasmi ambientalisti e paranoie varie) e una narrazione non troppo lineare. Come il libro, il film è fatto di pezzi di bravura come la lezione “a due” di Adam Driver e Don Cheadle, la sequenza (verso la fine) della suora atea che si incazza con i protagonisti che vorrebbero ottenere da lei uno scampolo di spiritualità (attenzione: è Barbara Sukowa!) o tutte le sequenze in cui i fastidiosissimi figli di Driver e di Greta Gerwig (madre svagata e probabilmente tossicodipendente) fanno i sapientini e si parlano addosso l’un l’altro.

C’è uno studio particolare su costumi e set e una colonna sonora di Danny Elfman realmente incisiva nel senso che accompagna e non enfatizza mai (non viene da canticchiarla come se fosse un film di Tim Burton, insomma).

E poi ragazzi, c’è una scena sui titoli di coda che per me, ultrafan degli LCD Soundsystem, vale tutto: il balletto del consumismo reaganiano nel coloratissimo supermercato sulle note di una nuova canzone composta appositamente da James Murphy per il film. Io gli darei comunque il massimo dei voti, voi guardatelo e poi mi dite.

AMSTERDAM (David O. Russell, 2022)

Amsterdam: molto curioso questo film di David O. Russell con un cast interessante (Cristian Bale che fa Cristian Bale al quadrato, Margot Robbie in un ruolo poco Margot Robbie e John David Washington che ogni volta che lo vedi pensi ma chi cazzo è? Ah, già, è il figlio di Denzel).

Sulla carta un noir con una bella iniezione di humor e azione che si svolge nell’America degli anni tra le due guerre, oltre che — ovviamente — ad Amsterdam. Alla prova della visione, un noir vagamente anemico, con una fotografia programmaticamente desaturata che dopo un po’ stanca, ma con un quid che cattura l’attenzione: l’occhio di vetro di Cristian Bale? La chimica impossibile eppure presente tra i tre protagonisti? Il cameo sprecato di Robert De Niro? L’ambientazione tra i reduci del primo conflitto mondiale che è certamente poco praticata? Non lo so, eppure Amsterdam è un film abbastanza intrigante da lasciarsi guardare.

La trama in breve (no spoiler, anche se si tratta di una “storia vera” ovviamente romanzatissima): Burt e Harold si conoscono nel 1918 al fronte in Europa. Feriti in battaglia vengono curati da Valerie, infermiera/artista straordinaria. Poi vanno ad Amsterdam impostando uno strano rapporto a tre, poi Burt torna a New York (dove ha una moglie) ma quando lui viene arrestato anche Harold e Valerie tornano in patria per aiutarlo e poi si perdono di vista. Negli anni ’30, Harold e Burt vengono contattati per risolvere un caso di omicidio che nasconde un verminaio di filonazisti, organizzatori di colpi di stato occulti e… parenti di Valerie.

Da lì in poi c’è un bordello intricatissimo di colpi di scena che lasciano un po’ il tempo che tovano ma non sono proprio “telefonati”. Insomma, un bel film “medio” come se ne facevano tanti una volta, visibile su Disney+.

TERRIFIER (Damien Leone, 2016)

Volevo vedere Terrifier (il primo capitolo del 2016) giusto per completezza, dopo aver visto durante le festività natalizie Terrifier 2, sempre di Damien Leone ma fatto con più soldi e con più sangue e ammazzamenti creativi nel 2022. Più che altro per capire le origini di questo personaggio di Art il Clown, una via di mezzo tra Pennywise, Freddy Krueger e Jason Voorhees.

E niente, Terrifier è sostanzialmente uguale a Terrifier 2 ma con meno soldi, non si spiega un cazzo ma è semplicemente una fiera di squartamenti, crani sfondati e ferite sanguinolente da armi da taglio o mazze chiodate che testimoniano il talento in erba di Damien Leone come practical FX master.

La trama è: Art il Clown ammazza diverse pischelle nella notte di Halloween ma anche un paio di pizzaioli, un disinfestatore e una barbona. Finisce esattamente dove inizia Terrifier 2, con Art che non è morto e fa brutto al medico legale. Per amatori.

ORPHAN: FIRST KILL (William Brent Bell, 2022)

Mi piace quando vendono i film come horror quando in realtà sono dei thriller molto poco spaventosi, però dai. Orphan: First Kill ha anche il suo perché. Sempre se avevate apprezzato Orphan, il film del 2009 in cui Isabelle Fuhrman interpretava Esther, la bambina malefica che si faceva adottare dalla famiglia di Vera Farmiga e che si scopriva poi che in realtà era una truffatrice nana e psicopatica che uccideva tutti.

Dodici anni dopo hanno deciso di fare… il prequel. Sempre con Isabelle Fuhrman, Ora, la curiosità del film sta nel fatto che — se l’attrice protagonista in Orphan aveva, boh, 12 anni, e doveva interpretare una trentenne psicopatica che faceva finta di essere una bambina di 12 anni, oggi la Fuhrman ha tipo 24 anni e deve nuovamente interpretare lo stesso personaggio.

Quindi se prima il focus era “recitare come un’adulta”, oggi il focus è “sembrare una bambina diabolica credibile”. Tutta questa roba è resa con trucchi cinematografici vecchi come Méliès (piattaforme, rialzi, angolazioni e tagli particolari, un po’ come le differenze di prospettiva tra Gandalf e Frodo nel Signore degli anelli, per intenderci).

Detto ciò, qui vediamo le origini di Esther, che in realtà si chiama Leena ed è una nota criminale estone che ci viene presentata tipo Hannibal Lecter e che — fuggita dal manicomio criminale dove è rinchiusa — si spaccia per una bambina scomparsa anni prima e “ritorna” dalla famiglia d’origine in America.

Seguono ovviamente sospetti, sotterfugi e macchinazioni, ma soprattutto ad un certo punto c’è un colpo di scena assolutamente inaspettato che cambia le carte in tavola e che è sinceramente molto godibile. Ovviamente poi è un bagno di sangue e muoiono tutti malissimo tranne lei, ma questa è la parte prevedibile. A me non è dispiaciuto per niente.

AFTERSUN (Charlotte Wells, 2022)

Santo Mubi che mi permette di vedere Aftersun, il film di debutto di Charlotte Wells. Il film che — se lo avessi visto una settimana fa — sarebbe entrato di diritto nella top 3 dei migliori film del 2022.

Sì, Aftersun è uno di quei rari miracoli in cui ti sembra di vedere una cosa nuova, una cosa che parte dal banale, dal quotidiano, volendo dal noioso e ti porta in un territorio metafisico, profondamente emotivo, illuminante.

Aftersun è un film drammatico. O meglio, è antidrammatico. È un film bastardo, che dopo una ventina di minuti ti fa pensare “qui sta per succedere qualcosa di brutto”, ma poi… non succede mai un cazzo. O forse sì. Forse succede qualcosa ma non lo capisci col cervello, lo senti piuttosto sotto pelle. Dopo un’ora vedi certe inquadrature e pensi “ok, qua scatta la tragedia”. E in effetti ci sono brevi sequenze che sono come nubi nere all’orizzonte, ma la tempesta non arriva. La tempesta è fuori campo, fuori fuoco, filtrata dalla memoria, dal sogno, dagli schermi, dagli specchi, dai riflessi.

Comunque. C’è questo Calum (il Paul Mescal di Normal People, è bravissimo e va tenuto d’occhio) che è un giovane padre scozzese divorziato che va in vacanza in uno scalcinato resort turco con la figlia undicenne Sophie (Frankie Corio, anche lei eccezionale).

Tutto il film è un pedinamento (una volta si diceva “slice of life”) di questa coppia padre-figlia sui generis, della loro intimità, dei loro scazzi e dei loro momenti di locura. C’è la piscina, ci sono gli animatori che fanno le serate karaoke, la Macarena (il film si svolge negli anni ‘90), le riprese dalla videocamerina Sony montate col resto del film. Riprese che, capiamo quasi subito, una Sophie adulta sta riguardando oggi.

Niente viene specificato in Aftersun, tutto resta sospeso. Anche nel finale non esplode nessun dramma, eppure tu ti ritrovi a provare quella sensazione… di rimpianto, di lutto, insomma.

Fotografia e soprattutto montaggio sono costruiti ad arte per rendere il quotidiano metafisico: Wells riesce a rendere in modo molto proustiano una vacanza “qualsiasi” un romanzo di sensazioni universali, semplicemente accumulando dettagli e non spiegando mai nulla. Ecco, se dovessi dire cosa dovrebbe o potrebbe essere veramente il cinema, citerei Aftersun tra gli esempi migliori.

THE MENU (Mark Mylod, 2022)

Cosa dire di The Menu di Mark Mylod? Niente, che mi è piaciuto ma che meglio farebbero a non venderlo come horror. Qui siamo dalle parti di Triangle of Sadness, ovvero “vediamo quanto cazzo fanno schifo i ricchi”, ma con un piglio ammerigano invece che scandinavo. Un piglio, se vogliamo, meno gelido e volutamente respingente e più appassionatamente diabolico.

Quindi, se vi piace l’idea di vedere per un paio d’ore Ralph Fiennes nei panni di un mefistofelico chef che recita battute memorabili a palate e a botte di piatti assolutamente incredibili e bizzarri (ma dall’intento molto satirico) tira le mazzate in faccia ai ricchi veri, ai nouveau riches, ai parvenu hollywoodiani e a tutta la cricca dei borghesi ossessionati da masterchef, accomodatevi.

Ovviamente la metafora della lotta di classe è tirata alle estreme e mortali conseguenze, e lo chef (sì, chef!) non si ferma davanti a nulla, né mutilazioni, né omicidi, né suicidi di massa per dire la sua, cioè… per creare la sua opera d’arte (culinaria) totale.

I due problemi che io intravedo in The Menu sono: 1) che il film funziona alla grande fino circa a metà, quando il mistero e il non detto sono parecchio intriganti. Nel momento in cui, appunto a metà del film, lo chef rende palese il suo obiettivo finale, diventa un po’ tutta un’attesa senza mistero e 2) che il modo in cui un certo personaggio la scampa con una allegoria gastronomica del proletariato è un tantino assurdo.

Poi, devo dire, se volevano venderlo come horror, io avrei insistito un po’ di più sul cotè slasher. Tutti quei coltellacci a disposizione e ci tagliano solo un dito.

THE PALE BLUE EYE (Scott Cooper, 2022)

The Pale Blue Eye è uno di quei bei filmoni di una volta, con almeno un attorone di richiamo (Cristian Bale nel ruolo di Cristian Bale XIX secolo, ma quanto sta lavorando Cristian Bale ultimamente) e con un high concept di tutto rispetto: qualcuno sta uccidendo la meglio gioventù di West Point e bisogna capire chi e perché. In compagnia nientemeno che di Edgar Allan Poe in persona.

Metto subito le mani avanti: ieri ho ricominciato a lavorare nonché a praticare yoga, quindi diciamo che durante la visione mi sono addormentato almeno due volte. Ma — essendo in pratica un mystery per di più in costume, posso dirvi che alla Titti è piaciuto un casino (la Titti predilige i true crime e Bridgerton).

In pratica il Cristian Bale del 1830 viene chiamato a risolvere un caso di omicidio in cui al cadavere viene anche asportato il cuore: satanismo? Nonnismo tra cadetti? C’entra la figa? (Spoiler: c’entra, ma non come pensate voi). Casualmente chi sta studiando a West Point quell’anno? Ma il cugino malvagio di Harry Pot- il non ancora famoso Edgar Allan Poe! Seguono misteri misteriosi e un 60% di inquadrature girate in piena notte in un bosco con la nebbia e con la gente vestita prevalentemente di nero (sarà per quello che ad un certo punto ho ronfato).

Comunque sul finale mi sono risvegliato di colpo perché ovviamente c’è il super colpo di scena che ribalta tutto quello che credevamo di sapere fino a quel momento. Caruccio, dai. Devo capire se ho voglia di rivederlo.

PIGGY (Carlota Cereda, 2022)

Cerdita di Carlota Pereda (titolo internazionale con cui lo potete trovare in giro: “Piggy”) è un thriller spagnolo abbastanza sorprendente. Purtroppo come dicevo si trova in giro solo nella release doppiata per il Sundance 2022, quindi vedi questa rosa di personaggi che popolano un villaggio nell’Extremadura che muovono il labiale in un modo che ti fa venir voglia di ascoltare la loro recitazione e invece parlano tutti un inglese abbastanza asettico (che, mi immagino, sia il “doppiaggiese” degli americani).

Ma vabbè. La cerdita, la “scrofa” del titolo è Sara, la figlia del macellaio del paese, interpretata da Laura Galàn che evidentemente, data la sua fisicità, è in sintonia con il personaggio e con le sue motivazioni e questo porta il tutto a un livello di empatia molto alto.

Sara è bullizzata dalla gang delle ragazze fighe che gliene fanno di tutti i colori. Quasi la affogano in piscina, le rubano vestiti e zaino, la fanno correre per strada in bikini, e questo oltre i continui e ripetuti insulti per il suo corpo non conforme. E vi assicuro che — se Piggy è venduto come un horror — la parte più horror è proprio questa. Ma se voi avete visto il poster del film, dove Sara è completamente coperta di sangue, vi aspettate giustamente il sangue. Diciamo che per caso nel villaggio passa un serial killer che prende di mira proprio le ragazze stronze e che dimostra invece una strana forma di empatia e rispetto per Sara (tipo che le compra le merendine e gliele fa trovare sulla finestra anche se lei è a dieta perenne).

Da questa premessa tutto lo svolgimento è: Sara sposerà il punto di vista del serial killer e godrà nel vedere smembrate le stronze compagne di scuola o le salverà? Per saperlo dovete guardarlo.

Comunque è anche un film profondamente spagnolo, quindi alla tensione e al sangue si abbina un gusto assurdo per il surreale e per la commedia grottesca che alleggeriscono senza stonare. Il personaggio della madre di Sara, poi, è fantastico.

BROKER (Hirokazu Kore’Eda, 2022)

Ciao, avete visto Broker, l’ultimo film di Hirokazu Kore’eda? Vale la pena vederlo con attenzione per capire cosa continua a funzionare bene nel cinema del (a-hem) più grande regista giapponese vivente e cosa invece va leggermente in merda.

Non è il primo film che Kore’eda gira fuori dal Giappone (ne ha fatto uno in Francia nel 2019 che non ho visto), ma è il primo che gira in un altro importante mercato asiatico, quello coreano. La sintonia incredibile che c’è tra Kore’eda e i suoi attori — qui in particolare con Song Kang-Ho che come in tutti i film cui partecipa (Parasite, Memories of Murder, A Taxi Driver, per dirne tre) si mangia la scena sempre e comunque — è sempre palpabile.

Il problema potrebbe essere duplice: da un lato con Shoplifters Kore’eda ha raggiunto un po’ una vetta nelle sue variazioni sul tema della famiglia non convenzionale, e questo Broker non fa che suonare sempre le stesse corde. Dall’altro, il confronto con il mercato coreano. Mi pare che i film giapponesi siano molto più lineari e diretti dei film coreani. Entrando in questo mondo produttivo decisamente diverso, Kore’eda si piega (volentieri e con gran divertimento, immagino) a realizzare quel pastiche di generi che fa sembrare Broker una serie TV coreana condensata in due ore: c’è il dramma familiare, ci sono i personaggi canaglia ma adorabili, ci sono i bambini, c’è però anche il buddy cop movie, c’è l’investigazione, c’è persino una sottotrama pseudo-mafiosa e un omicidio. Insomma, un po’ tanta carne al fuoco.

Detto ciò, al solo scopo di fare un po’ di analisi saputella e fastidiosa sul cinema asiatico, Broker è un film comunque godibile. La premessa è quella delle baby box (equivalente coreano del sagrato della chiesa nell’Italia degli anni ’50-’60) in cui le ragazze madri depositano il fardello dei figli non voluti.

Sang-Hyeon e Dong-Soo, due adorabili spiantati, ogni tanto trafugano un neonato e lo vendono al “mercato nero delle adozioni” (che ovviamente in Corea è una roba grossa). Fanno i “Broker” di bambini. Senonché So-Young (la madre che abbandona il bimbo all’inizio) cambia idea, li sgama e si mette in viaggio con loro per vendere il bambino al miglior offerente.

Nel frattempo tutta la gang è seguita da una coppia di poliziotte (una è Bae-Doona, la ricorderete per i film delle Wachowski) che li vuole incastrare. Per buona misura ad un certo punto sul furgone dei protagonisti si nasconde anche Hae-Jin, un bambino dell’orfanotrofio maniaco della Premiere League che ha lo scopo nemmeno troppo nascosto di esplicitare “la linea comica”.

E niente, per trovarlo dovete sgattare un po’ nei torrenti, ma è molto interessante, anche se non lo definirei il miglior Kore’Eda. Probabilmente però è il miglior Song-Kang-Ho. Almeno, lui dice così.

M3GAN (Gerard Johnstone, 2022)

Allora, c’è questo M3GAN che è il grande e inaspettato successo di gennaio 2023. Capirete anche voi che un film che parte da una premessa che mescola Chucky la bambola assassina, Artificial Intelligence (e quindi di seconda mano Pinocchio) e Terminator non poteva passare inosservato al mio radar personale.

E quindi sono qui a dirvi che M3GAN è un film simpatico, non particolarmente horror, godibile da tutta la famiglia (vabbè diciamo che alla Creatura non lo farei vedere, ma a un ragazzino delle medie magari sì) e che ha interiorizzato quella che possiamo chiamare in termini di marketing audiovisivo, “la legge di Mercoledì”, e cioè che ci deve sempre essere almeno un balletto stronzo che tutti possano rifare su Tik Tok.

M3GAN (Model 3 Generative Android) è appunto un robot avanzatissimo a grandezza naturale in grado di imparare e interagire con i bambini come una compagna di giochi ma anche come una tata. Cathy invece è una bambina di 9 anni che all’inizio del film perde i genitori in un incidente d’auto e viene affidata alla zia che GUARDA CASO è l’ingegnere che sta creando il prototipo di M3GAN per la sua ditta di giocattoli.
La zia ha l’istinto materno sotto le scarpe ma ha anche una gran voglia di testare M3GAN con una bambina vera, e detto fatto, scatta l’inquietante legame tra la bambina e il robot.

Poi vabbè, inizia a scorrere il sangue, le leggi della robotica finiscono nel cesso, c’è anche una interessante scena che cerca goffamente di spiegare l’elaborazione del lutto e l’attaccamento alle bambole come oggetti transizionali da parte della psicologa di Cathy (psicologa che NON muore male, come tutte le psicologhe di questo tipo di film).

Ecco, se dovessi dire, M3GAN mi ha stupito molto per l’elevato numero di persone che NON muoiono male. Io mi aspettavo più stragismo. Il finale è puro James Cameron. Caruccio, ma spero che non facciano sequel.

MY BEST FRIEND’S EXORCISM (Damon Thomas, 2022)

Gennaio è un po’ il mese in cui tiro fuori dal cestone dei DVD a 1 euro (cioè dai cataloghi streaming, in questo caso di Prime Video) quelle cacatine che ho rimandato perché c’erano cose più interessanti da vedere. Ma comunque sia me le ero segnate, no?

E allora ecco My Best Friend’s Exorcism, che in pratica è come se John Hughes avesse girato un horror teen comedy. Allora: la parte teen è preponderante, è un po’ Mean Girls ma negli anni ’80, si parte con gli A-Ha e si continua coi Culture Club, per darvi il contesto.

Pettinature, vestiti e production design sono secondo me il vero valore aggiunto di questa minuziosa ricostruzione storica. La parte comedy, vabbè, se vi fanno ridere i battibecchi tra amiche del liceo, sì, c’è la comedy (che però è portata avanti alla grande da Chris Lowell e dal suo trio di fratelli culturisti cristiani).

La parte horror è ovviamente all’acqua di rose (o al vomito di milkshake, se preferite), ma è correttamente sviluppata secondo una grammatica filmica molto slasher anni ’80 (pedinamenti nel buio etc). Bella la parte delle tenie, non dico altro.

Il film è tratto da un romanzo young adult di successo che io comprerei solo per la copertina (cercatelo on line, è fighissima). Ah, e c’è Elsie Fisher che ormai è specializzata nei ruoli da protagonista nerd e brufolosa di ogni grado scolastico (già sprizzava disagio da tutti i pori in Eight Grade).

BODIES BODIES BODIES (Halina Rejin, 2022)

Voglio parlarvi di Bodies Bodies Bodies (che si trova “in giro”) e che il vostro affezionatissimo ha pescato in quanto è un film A24 e tutti i film A24 vanno visti a prescindere, a maggior ragione oggi che un film A24 è candidato a 11 Oscar e li vincerà tutti (temo di no, ma lasciatemi sperare).

Tornando a Bodies Bodies Bodies, lasciate che vi dica che dà l’impressione di una mezza cagata anche se poi non lo è. Perché è costruito ad arte per farvi venire l’orticaria, con i suoi esponenti Gen-Z che vorresti vedere morti tutti subito, con tutte le buzzword che triggerano i maggiori di 25 anni e con quella macchina da presa un po’ scialla che inquadra apparentemente a cazzo e con le luci dei telefonini come unica fonte luminosa.

Ci sono 7 personaggi. Due ragazze che fanno coppia (una è Maria Bakalova di Borat 2) e che limonano felici in primissimo piano nella prima inquadratura; una podcaster svampita (è la bravissima Rachel Sennott di Shiva Baby)e il suo ganzo circa quarantenne molto fuoriposto; il padrone di casa coglione senza speranza (Pete Davidson) e la fidanzata attricetta cagna maledetta; l’amica single incattivita e incazzosa.

Tutti insieme ballano Azealia Banks e tirano di coca continuamente, poi dopo mezz’ora, quando tutti i boomer hanno spento il televisore, parte la trama. Decidono di giocare a Bodies Bodies Bodies, che è tipo Among Us dal vivo, uno è l’assassino ma non si sa chi e bisogna indovinare.

Non passa molto che ci scappa il morto vero. C’è un killer tra loro? E se sì chi sarà? O è uno che viene da fuori? Le idiosincrasie e le poveracciate dei ragazzi (più che altro delle ragazze) vengono fuori una ad una in uno stranissimo “approfondimento dei personaggi” che non ti aspetteresti in un horror / slasher / comedy, ma ehi, è un film basato su un racconto della celebratissima Kristen Roupenian (Cat Person), ed è un film A24!

Comunque sia, c’è un po’ di ultraviolenza e alla fine un colpo di scena che mette in prospettiva tutto il film rendendolo MOLTO più idiota di quanto non sembrasse a prima vista. Un oggetto strano. Se vi capita vedetelo.

KIMI (Steven Soderbergh, 2021)

Questa è Zoe Kravitz coi capelli blu. Il film è Kimi di Steven Soderbergh. Kimi è il nome di un assistente vocale tipo Alexa. Zoe Kravitz è un’impiegata agorafobica della ditta che produce Kimi. Il suo lavoro è ascoltare gli stream audio degli utenti flaggati e istruire la AI con qualche riga di codice per prevenire altri errori. Non esce di casa nemmeno per curarsi un ascesso dal dentista.

Ma un bel giorno negli stream audio scopre la prova di un crimine. Che fare? Prova a denunciarlo alla ditta, la ditta (nella persona di Rita Wilson) preferirebbe insabbiare tutto. Anche perché c’è di mezzo un ricatto e dei gangster vorrebbero far fuori Zoe Kravitz. Ma Zoe Kravitz è figlia di Lenny e di Lisa fucking Bonet, e state sicuri che il finale di Kimi non vi deluderà quanto ad adrenalina e simpatica violenza.

Soderbergh ha fatto Hitchcock (in verità rifacendosi poi a De Palma o a Coppola) confezionando un gioiellino di thriller che grazie a dio non dura 180 minuti. Lo ha fatto per HBO Max con cui collabora da un po’, quindi non so se qui da noi è già su qualche piattaforma. Comunque “si trova”.

MARCEL THE SHELL WITH SHOES ON (Dean Fleischer-Camp, 2022)

Per quei pochi di voi cultori dell’animazione indipendente su Internet, Marcel The Shell With Shoes On (d’ora in poi MTSWSO) è un corto di successo lanciato su YouTube nel 2010 che poi ha generato altri corti, libri per bambini e — nel 2022 — un film vero e proprio, prodotto da A24.

Il titolo MTSWSO dice più o meno tutto. Marcel è una conchiglia (non un mollusco, una lumaca o un paguro: proprio solo una conchiglia) con un’occhio sporgente, due scarpine da tennis e una boccucia animata che parla parla parla sempre con la vocetta garrula e un po’ stridula di Jenny Slate (ai tempi del primo corto sposata col regista Dean Fleischer-Camp).

Voi direte sorbole, che minchiata! E invece MTSWSO è considerato da fonti affidabilissime come uno dei migliori film del 2022 e sicuramente nella top 3 dei film animati. Ecco, l’animazione: è molto curiosa, dato che si tratta di un finto documentario (un mockumentary) dove Marcel e la nonna Connie, con la voce di Isabella Rossellini, sono personaggi animati in stop motion in un contesto assolutamente realistico e quotidiano.

La premessa è che Dean (il regista, in una versione romanzata di sé stesso) va in un AirBnb perché si è separato e non ha una casa. Lì incontra Marcel e decide di fare un documentario su di lui. Marcel, l’ho detto, parla in continuazione, un po’ come i bambini che devono dirti la loro su tutto, risultando surreale e al tempo stesso profondissimo. Marcel dorme su una fetta di pan carrè, porta al guinzaglio un grumo di peli umani, escogita trucchi geniali per muoversi nella grande casa, e ha un problema. La sua famiglia è sparita da quando i proprietari umani della casa si sono trasferiti.

Dean manda su YouTube un breve documentario su Marcel e lui diventa famoso (e qui la storia diventa meta e cominciano ad arrivare gli influencer che si fanno i selfie davanti alla casa di Marcel). Poi, insomma, c’è una svolta un po’ drammatica e Marcel ha sempre più bisogno di famiglia, ma ci sarà anche un lieto fine. MTSWSO è uno di quei film all’apparenza incomprensibili di A24 dove poi ti trovi completamente catturato e anche un po’ con il cuore spezzato (ma lo spezza in modo GENTILE E SURREALE, non vi preoccupate).

Secondo me è adattissimo agli adulti, mentre per i bambini azzarderei che può piacere tra i 3 e i 5 anni (per l’aspetto visivo), poi non più. Troppe parole.

FISSARE I PENSIERI AL MURO

Tra poco ricomincia la giostra e io non posso fermarla.

Morire durante le feste è una roba orribile, ma in effetti lascia a chi resta il tempo di stare in una sorta di bolla sospesa in cui ci stanno le onoranze funebri, i funerali, i rosari, le tumulazioni e tutte cose.

Ti lascia anche il tempo di affollarti la testa di pensieri confusi che rimbalzano nella testa e si mischiano. Per esempio, io mi sveglio e penso che ci sono un tot di robe da fare, che c’è la pratica dell’UVG per pagare meno la RSA, che c’è il problema del neuropsichiatra, che ci sono mille cazzi continui, e poi mi ricordo che no, che adesso sei morta, così, de botto, senza un perché.

E quindi sì, ci sono dei problemi da risolvere ma sono tutti altri problemi: la casa vuota, le utenze domestiche da sospendere, cosa vendere, cosa tenere. Problemi pratici, come la lapide che è ancora da mettere sulla tua celletta che poi cazzo non ti sbagliare a chiamarla loculo che parte un fraintendimento burocratico che lèvati.

E quindi questo 2023 comincia così: quella sensazione che potrei venirti a trovare incastrando i soliti tremila impegni settimanali ma poi no, non c’è più nessuno da andare a trovare. E comunque ogni volta che venivo a trovarti era sempre tutto una merda, volevi morire e infatti alla fine sei stata accontentata.

Però tutte le volte che passo davanti ai banchi del mercato dove vendono le famose maglie che ti piacevano penso “Peccato, non potremo più comprarti una maglia”. L’ultima che ti abbiamo regalato te l’ho fatta mettere nella cassa, un po’ come le sepolture egizie, fai il tuo viaggio con gli oggetti che ti piacciono. Volevo metterti le boccette di profumo nell’urna delle ceneri poi non ci stavano, ho optato per il tuo orologio. E a proposito di profumi, in farmacia hanno ricominciato a vendere quelle boccette a 5 euro di cui facevi collezione, ma non te le prenderò più.

La cosa strana è sentire che non sono più “figlio”. Sono “marito”, “padre”, “amico”, ma il ruolo di figlio non lo devo più interpretare. Che poi diciamocelo, negli ultimi 15 anni (soprattutto negli ultimi 5) è stato un ruolo bello scomodo, quindi da questo punto di vista per me è anche un sollievo. Ma sai che c’è. La persona muore, ma la relazione no, quindi posso essere titolato a sentirmi comunque anche figlio.

Purtroppo l’amore tra genitori e figli è costituzionalmente destinato a finire male. Prima i figli se ne vanno e poi i genitori muoiono. Pare sia l’ordine naturale delle cose.

Io mi butto nelle cose pratiche, perché sono fatto così. Anche perché le cose pratiche mi romperanno il cazzo per minimo un anno. Vorrei per esempio regalare il tuo pianoforte all’RSA che ti ha ospitato negli ultimi mesi. Tu non lo suonavi da più di 20 anni, ma lì magari può ancora rallegrare qualcuno.

Stavolta non è come quando è morto papà, lì c’era molto più sclero. Stavolta ci sono solo io, mi hai fatto lo scherzone ma io me lo aspettavo. Diciamo che era un anno che mi preparavo a questo momento e che lo vivevo un pochettino dentro di me. E quando è arrivato non è che ha fatto meno male, ma avevo più strumenti.

Mi spiace per le cose che potevamo ancora fare insieme e non faremo più, ma mi rendo conto che forse tu non avevi più voglia di fare niente.
E va bene così.

LA RESURREZIONE DELL’IMMAGINARIO

Lo scorso dicembre ho visto moltissimi film. Quindi siccome questo sarà un post estremamente lungo, faccio che dar spazio subito alla raccoltona del mese. Solo una nota per giustificare il titolo. Parliamo sempre di morte dell’immaginario. In realtà in questo scorcio del 2022 possiamo dire che un pochettino stia risorgendo… no? Let’s go.

GUILLERMO DEL TORO’S PINOCCHIO (Guillermo del Toro, 2022) – Netflix

“Un altro Pinocchio?” sbufferanno i miei venticinque lettori… Sì bambini, ma non è il solito Pinocchio di sempre. È il “Guillermo Del Toro’s Pinocchio”, e il guglielmone si prende tutte le libertà del caso inserendo il suo ingombrante nome direttamente nel titolo.
Di Pinocchio è pieno il mondo del cinema, specialmente in questo ventunesimo secolo. Quasi tutti si confrontano con il classico Disney del 1940, pochi si confrontano con il testo originale, solo uno parte per la tangente inventando e allegorizzando: questo Pinocchio. Guillermo Del Toro’s Pinocchio.
Ma non è mica un male, eh? Appurato che del Pinocchio originale, come della Bibbia, Del Toro fa un cherry picking salvando le parti che interessano di più e innestandoci sopra un po’ di Laberinto del Fauno e un po’ di Espinazo del diablo, il film – in uno stupefacente stop motion che va al di là anche degli stop motion più intriganti nella misura in cui non “sostituisce le facce” per fare le espressioni ma deforma direttamente e meccanicamente il puppet originale (vabbè, tecnicismi, ma dovete vedere il risultato finale) – procede in una direzione sorprendente.
Come Zemeckis, Del Toro innesta l’idea di Pinocchio nella mente di un Geppetto che ha perso il suo figlio vero. In questo film Carlo (il bambino vero) muore sotto un bombardamento del ’15-’18 e Geppetto diventa un alcolista che anni dopo – in pieno fascismo – crea il burattino dal legno di un pino che cresceva sulla tomba dell’amatissimo figliolo.
La creazione non ha nulla di allegro, è più simile alla creazione di Frankenstein che del Pinocchio disneyano. Pinocchio stesso è grezzo, nudo, legnoso e “non finito”. Il design dei personaggi, di Grim Grisly, fa veramente miracoli: Pinocchio è da subito un agente del caos. Non è carino, non è buono e non è cattivo. È semplicemente un fenomeno naturale che distrugge ogni convenzione e mette in crisi ogni valore e ogni verità (bellissima la scena in chiesa in cui chiede a Geppetto perché tutti amano il Cristo che è di legno e disprezzano lui che è anche fatto di legno).
Del Toro fonde Mangiafuoco, il gatto e la volpe in un antagonista unico (il conte Volpe) aiutato da una scimmia intelligente di nome Spazzatura: Volpe scrittura Pinocchio e lo costringe ad esibirsi, poi la storia procede come sappiamo, pescecane compreso. Il twist alla Del Toro sta nel fatto che la fata turchina è in realtà un inquietante spirito della vita che dà vita a Pinocchio per consolare Geppetto e incarica il grillo (Sebastian J. Cricket, LOL) di indirizzarlo verso il bene. Pinocchio però può morire e rinascere, e lo fa più volte nel corso del film, accompagnato nell’oltretomba dai classici conigli portabara vestiti di nero. Nell’oltretomba incontra lo spirito della morte, la sorella dello spirito della vita, che gli spiega le “regole dell’eterno ritorno”.
Detto ciò, l’ambientazione fascista potrebbe sembrare un inutile pretesto, ma invece è parte integrante della storia: ad un certo punto Pinocchio si esibisce per Mussolini in persona, riempiendolo letteralmente di merda, e il paese dei balocchi nel quale Pinocchio viene portato con Lucignolo (a sua volta figlio di un gerarca) è un campo di addestramento militare per Balilla.
Insomma, un film da vedere che colpisce per l’aspetto visivo ma anche per molti aspetti della sceneggiatura (di Joel Mc Hale, quello di Over the Garden Wall) che è estremamente malinconica e per un finale che lascia l’amaro in bocca. Le voci sono superlative (Tilda Swinton, Ewan McGregor, Cate Blanchett, Ron Perlman, David Bradley, Cristoph Waltz), l’unico neo è aver infilato secondo me un paio di canzoncine di troppo, forse per rendere il progetto più gradito ai più piccoli: ma Guillermo Del Toro’s Pinocchio non è un film per bambini. Almeno non nel senso convenzionale del termine.
Se non altro in famiglia ha suscitato curiosità intorno al fascismo e alla guerra, a qualcosa è servito. #recensioniflash

SCREAM (Matt Bettinelli-Olpin, Tyler Gillett, 2022) – AppleTV noleggio

Scream (2022) si intitola come Scream (1996) e non potrebbe essere altrimenti dato che – lo spiegano direttamente in una scena del film – si tratta di un REQUEL (un remake che è anche un sequel). Vabbè vi vedo già che vi alzate e ve ne andate, ma signori, vi dico subito che non è poi così male questo Scream.

Confesso che io l’ho iniziato solo per due motivi: 1) Jenna Ortega e 2) sto masochisticamente guardando tutti i seqremrebpreq dei franchise horror usciti quest’anno. Poi però l’ho guardato con gusto. Perché se già il primo Scream era la nascita dell’horror postmoderno negli anni ’90, questo Scream non può che essere postmoderno al quadrato, anzi al cubo, in un gioco di rimandi che fa un po’ girare la testa e che strappa più di un sorriso.

Per dire, in una sequenza una potenziale vittima sdraiata sul divano guarda una scena di Stab (il film fittizio nel film che veniva immaginato in Scream 2) in cui Ghostface sta per accoltellare un tizio sdraiato sul divano… e ovviamente anche dietro di lei c’è il nuovo Ghostface col pugnale in mano!

Scream (2022) è una galleria degli specchi dalla quale non si sa come uscire, una sceneggiatura che cerca di sorprendere (e qualche volta ci riesce) nel solito vecchio gioco di “chi è l’assassino”, con in più la autoconsapevolezza di un franchise che già di suo voleva essere metacinematografico e adesso è meta-meta-metacinematografico.

il requel perfetto deve avere qualche personaggio della “tradizione” (ed ecco che tornano Neve Campbell, Courteney Cox e David Arquette), un killer (meglio due killer) che hanno un legame col passato e che in questo caso interpretano il fenomeno del fandom on line, una serie di adolescenti potenzialmente sospettabili.

Vi dico solo che per un fan dell’horror la prima sequenza con Jenna Ortega (ricalcata sulla prima sequenza dell’originale con Drew Barrymore) è godibilissima. Lei è una fan dell’elevated horror A24 e non capisce i riferimenti di Ghostface agli slasher anni ’80-’90 e nel momento clou urla disperata “No! No! Chiedimi di Hereditary! Chiedimi di It Follows, di The Witch!”. SuperLOL.

Oh, comunque per me è un sì e dirò di più, tra questo, Halloween Ends e Hellraiser nuovo vince Scream a piene mani. #recensioniflash

BLACK ADAM (Jaume Collet-Serra, 2022) – AppleTV noleggio

Visti per voi: Black Adam con THE ROCK. Black Adam è ovviamente un film costruito su THE ROCK e che risponde essenzialmente alla domanda “…e se THE ROCK avesse i superpoteri?”. Purtroppo la domanda è mal posta perché tutti sanno che THE ROCK ha GIÀ i superpoteri, ma facciamo finta di nulla.
Black Adam è la origin story di un supereroe mediorientale (come Moon Knight, via) che però invece di essere Marvel è DC, quindi a un certo punto è attorniato da supereroi imbarazzanti non meglio identificati quali Hawkman (vabbè quello lo conoscevo), Dr. Fate (il Dr. Strange della DC), Cyclone e Atom Smasher (LOL).
In una scena post credits però c’è Superman. Ve l’ho detto.
Comunque c’è questo popolo di protosumeri, o accadi, o ittiti, quel che sia, comunque si esprimono in cuneiforme, il cui re è cattivissimo e vuole una corona demoniaca MA i maghi psichedelici dicono SHAZAM! e arriva Black Adam a sgominare tutti. Solo che fa casino uccide troppa gente e lo rinchiudono in una supertomba.
Ai giorni nostri l’immaginaria nazione di Khandaq è dominata da cattivissimi tecnocrati col mitra e Black Adam viene risvegliato anche perché il capo dei tecnocrati mira alla corona demoniaca. Ne conseguono ripetute gag DIVERTENTISSIME sul fatto che Black Adam non è come i supereroi di oggi che potendo evitano di uccidere. Lui uccide a manetta.
Jaume Collet-Serra si deve essere molto divertito, ammettiamolo. Lo spettatore si vede propinare sullo schermo non la Justice League ma la Justice Society (la Justice League dei poveri, insomma), e poi va beh, il film scorre via comunque meno pesante di un Avengers qualsiasi.
Nota di colore: pare che THE ROCK stia dando molto in testa alla WB e alla DC perché vorrebbe continuare con Black Adam 2 e un crossover con Superman, ma a quanto pare gli hanno detto no. Chissà poi perché. #recensioniflash

SPEAK NO EVIL (Christian Tafdrup, 2022)

Il mio amico Lorenzo sostiene che io a volte guardo i film del Disagio perché ho un gusto perverso per le cose brutte. Dice che a volte lo porto a vedere delle robe che lui non ci porterebbe nemmeno il suo peggior nemico.
Ecco: Speak No Evil, del regista danese Christian Tafdrup, è esattamente il tipo di film del Disagio che probabilmente lui mi stroncherebbe. O forse no. Dovrò chiedere il suo parere.
Speak No Evil è un horror, non ci sono dubbi, e uno dei più potenti degli ultimi anni. Ma in Speak No Evil si vede poco sangue, per dire (comunque, se date retta a me, quel poco che si vede basta e avanza). Speak No Evil parte come una commedia nera nordeuropea, procede accumulando piccole gocce di tensione, poi proprio secchiate di tensione, ma in sostanza non succede veramente un cazzo per un’ora e un quarto. Poi nell’ultimo quarto d’ora succede TUTTO, e quel tutto me lo sognerò per mesi.
La trama in breve: famigliola danese in vacanza in Toscana conosce famigliola olandese in vacanza nello stesso resort con grazioso bimbo della stessa età della loro bimba. Soprattutto i due uomini sembrano legare molto. Poi in inverno la famigliola olandese invita la famigliola danese a passare un weekend da loro nella campagna nederlandese. La mamma danese è un po’ titubante, perché dai, è gente che abbiamo visto per una settimana mesi fa, ma il papà danese dice VUOI MICA DIRE DI NO, È MALEDUCAZIONE.
E questo fatto dell’essere beneducati, del rifuggere il conflitto, dell’essere accomodanti per non fare la figura degli stronzi è precisamente il tema del film (un tema con il quale molti potranno identificarsi pienamente, specialmente in terra sabauda). Perché la buona educazione in Speak No Evil porta a conseguenze indicibili e ad un finale che – se tutto il film è Disagio – è veramente Incubo Senza Uscita e Senza Pietà.
Lo scambio di battute finale peraltro è la cosa più angosciante sentita in un film dai tempi di Michael Haneke. D’altra parte lo spettatore è avvertito fin dall’inizio, dal momento in cui su scene apparentemente ordinarie rimbomba una colonna sonora che manco Shining.
Ora non mi resta che capire se posso far vedere questo film al mio amico Lorenzo o no.
Perché a lui comunque le commedie europee piacciono.
Potrei stopparglielo a 20 minuti dalla fine, forse.
Oppure no. E poi farmi odiare per l’eternità. #recensioniflash

THREE THOUSAND YEARS OF LONGING (George Miller, 2022)

Un film che esce con un trailer con un pezzo come quello dei SUUNS è già un oggetto non identificato da tenere d’occhio in partenza.
Quando poi finalmente lo vedi, 3.000 Years of Longing – l’ultimo film di George Miller, l’uomo che ci ha consegnato il film capolavoro del ventinesimo secolo – mantiene abbastanza le promesse di film surreale, immaginifico, misterioso, metanarrativo, ipnotico e affascinante.
Voglio dire, una fiaba d’amore per adulti con Tilda Swinton e Idris Elba, i due attori più fichi dell’universo, vuoi non vederla? Il film è ovviamente imperfetto, ha qualche caduta di ritmo ma non si può dire che non sia un film che OSA.
Tilda Swinton è Aletheia (notare il nome), una studiosa di narratologia che arriva a Istanbul per un convegno. Compra un souvenir nel bazaar, una bottiglietta. Dentro la bottiglietta c’è un Djinn (Idris Elba) che si trova a raccontare storie a una che delle storie e dei miti ha fatto la sua professione. Il Djinn racconta i suoi “tremila anni di desiderio” passati da una padrona all’altra (la regina di Saba, una concubina di Souleyman il magnifico, una donna-genio nella Turchia Ottomana) e intanto fa innamorare la solitaria Aletheia…
Vi potete aspettare effetti digitali impeccabili, un’occhio per la messa in scena eccezionale (roba che se ci metteva le mani Tarsem Singh era una tragedia), un film tutto sommato molto parlato, molto raccontato, ma emozionante e commovente.
Forse fa un po’ parte di quel filone che Miller ha esplorato in L’olio di Lorenzo e Le streghe di Eastwick (che può non piacere, diciamocelo), ma averne sempre a pacchi di registi come lui.
Per me è un convintissimo sì, da noi uscirà con l’anno nuovo, ma si trova già da mesi, ehm… in giro. #recensioniflash

MOONAGE DAYDREAM (Brett Morgen, 2022) – Prime noleggio

Che cosa vi posso dire di Moonage Daydream, il documentario fiume sulla mente di David Bowie? Innanzitutto che non è un documentario sulla sua musica o sulla sua carriera, o sulle evoluzioni del suo personaggio.
Si tratta proprio, come dicevo, di un film che tenta di cogliere i processi mentali di Bowie. Quindi un film prettamente sperimentale di due ore e passa, in cui troviamo videoarte, brani di interviste, spezzoni di concerti, ma tutti “lavorati” in postproduzione con pazienza certosina per riproporre un’esperienza psichedelica… un sogno ad occhi aperti dell’epoca della Luna, come da titolo azzeccatissimo.
I fan di Bowie potrebbero esaltarsi tantissimo o anche rimanere molto delusi. Di sicuro è un film che finché mette a fuoco Ziggy Stardust, Aladdin Sane, il primo periodo americano, il momento del Thin White Duke ad arrivare fino a Scary Monsters ci sta dentro tantissimo.
Posi si sfalda un po’ e si comincia a patire la lunghezza (e d’altro canto i percorsi artistici del Bowie degli ultimi vent’anni sono risolti in mezz’ora di sinestesie un po’ forzate).
Comunque uno dei migliori film dell’anno per il fatto che “osa”, che a mio avviso è già una buona cosa nel panorama odierno. #recensioniflash

BONES AND ALL (Luca Guadagnino, 2022)

Ho imparato ad amare molto la visione di Luca Guadagnino negli anni (all’inizio mi stava sulle palle, devo ammetterlo). Questo suo Bones and All mi è sembrata una tappa importante nel suo cinema, anche in termini di “summa” (o per i detrattori, di “autocitazione”).
Se ci fosse ancora bisogno di sottolineare che Guadagnino è il più internazionale dei registi italiani, qui ci offre uno sguardo sull’America (filtrato dall’ambientazione late eighties) che mi ha ricordato quello di altri grandi registi europei, come Wenders al tempo di Paris, Texas, per dire.
Se scomodo questi paragoni è ovviamente perché il film mi è piaciuto assai, proprio per il suo essere parte di un discorso sull’amore, sulle relazioni, sull’identità e – perché no – anche sul cibo che Guadagnino porta avanti da tempo.
La storia di Maren e Lee procede esattamente come i grandi classici on the road del calibro di Badlands, Bonnie and Clyde o Natural Born Killers (ma in quel caso con una furia postmoderna che qui non ritroviamo). La storia la sapete tutti, Maren (Taylor Russell) è una ragazza che ha un problema di cannibalismo, il padre non riesce più a gestirla e la abbandona. Parte un viaggio nell’america più profonda dove lei incontra altri “eaters”: un eccezionale Mark Rylance nell’inquietante ruolo di Sully e soprattutto Lee, interpretato da un Timothée Chalamet che si conferma sempre più “ultimo divo” dei nostri anni.
Come sempre con Guadagnino è riduttivo parlare di film di genere: Bones and All è evidentemente un horror (per stomaci forti, peraltro, perché tutte le scene di cannibalismo sono estremamente ben rese, nella grande tradizione italiana di Ruggero Deodato, Umberto Lenzi, etc). La coppia di cannibali rispecchia un po’ la coppia di vampiri di Interview with a Vampire, e del resto c’è anche qui un sottotesto queer che pulsa sotto la superficie delle immagini.
Tutto il film è girato in un modo che mi ha ricordato le fotografie di Gregory Crewdson, i suoi paesaggi un po’ Lynch un po’ Terence Malick. I personaggi (che , ricordiamolo, sono prima di tutto eroi di un romanzo young adult che Guadagnino ha adattato) hanno i loro traumi, le loro scoperte e le loro rivelazioni da fare fino a un finale amaro che per molti versi colpisce come quello di Call Me by Your Name. Ah, c’è anche Michael Stuhlberg (il papà in CBYN) in un ruolo supercreepy che fa rizzare i peli sulla schiena!
La colonna sonora di Reznor e Ross attraversa il film come un personaggio a sé, inanellando perle azzeccatissime come i Joy Division e i New Order (ho molto apprezzato). Non saprei che altro dire, io l’ho trovato meraviglioso e disperatamente romantico. #recensioniflash

CATHERINE CALLED BIRDY (Lena Dunham, 2022) – Prime

Se non avete ancora visto Catherine Called Birdy, su Prime Video, conviene che rimediate subito. Il film è la trasposizione di un romanzo young adult dallo stesso titolo, e racconta le avventure di una ragazzina nell’Inghilterra feudale del 1290.
Lena Dunham, che io amo da lontano da anni, ha realizzato una commedia medievale fresca e mai fuori fuoco, che parla del medioevo con un occhio al patriarcato odierno, aiutata da una protagonista in stato di grazia (Catherine è Bella Ramsey, la giovanissima Lady Mormont di Game of Thrones).
Catherine racconta le sue avventure in un diario che scrive per il fratello Edward, monaco in un’abbazia del circondario e si barcamena tra le amicizie con i ragazzi del popolo, un padre che cerca di maritarla a tutti i costi (Andrew Scott, magistrale), la nutrice, e una serie di pretendenti improbabili (tra cui Russell Brand e Paul Kaye).
Tutto il film è girato in modo iperrealistico, con un production design a metà tra Ridley Scott e i Monty Python, tra fango, merda e arazzi polverosi. Richiama moltissimo Game of Thrones per via del fatto che mezzo cast arriva da lì (e l’altra metà da famose serie TV inglesi, da Doctor Who in giù), ma il tono è ovviamente un altro, molto positivo e rinfrescante.
Bella Ramsey ha trovato a 19 anni già il ruolo di una vita per quanto infonde verità e naturalezza al personaggio di Catherine, ai suoi maneggi per evitare il marito, alla perizia con cui nasconde tra le assi del pavimento le pezzuole mestruali, ai suoi scherzi grossolani e assolutamente indegni di una dama.
Vedetelo in lingua originale che merita! #recensioniflash

THE FABELMANS (Steven Spielberg, 2022)

Ho visto The Spielbergs, pardon, The Fabelmans. Eh. Uno parte con l’idea del “non mi freghi” e poi resta fregato. The Fablemans è un film di sentimenti senza essere troppo sentimentale, e quindi la lacrima ci scappa, è inevitabile.
Lo sanno anche i muri che è la storia dell’infanzia e dell’adolescenza di Steven Spielberg in cui a quanto pare ha cambiato giusto i nomi… ho confrontato con stralci di interviste e documentari e pare che i genitori – cui il film è dedicato – fossero proprio così, facessero quei lavori lì, abbiano divorziato per quel motivo lì e che Spielberg abbia fatto proprio quei filmini lì, che il primo film che ha visto al cinema è stato proprio quello lì e la sua prima ripresa quella del trenino elettrico. Per tutto il film ho pensato che deve essere stato un po’ uno strazio personale ricreare la propria storia, i propri sogni e i propri traumi così, affidandoli a un gruppo di attori.
E quindi niente, il film si ferma quando il giovane regista in erba trova un lavoro alla CBS e gli fanno conoscere John Ford (scena bellissima e a quanto pare esattamente ricalcata sulla realtà, dialoghi, set e tutto).
Cosa c’è nel mezzo? Intanto un cast in stato di grazia: Paul Dano, Michelle Williams e Seth Rogen da Oscar subito (anche se i cameo di Judd Hirsch nei panni del vecchio zio squinternato e di DAVID LYNCH nei panni di John Ford quasi li oscurano).
Il ragazzetto che interpreta Spielberg è somigliante in modo inquietante e soprattutto non fa le faccette e non sembra il classico teenager da film di teenager (che non dimentichiamolo, c’è l’arte, il cinema, ma c’è anche il ballo della scuola, i bulletti da high school, la famiglia disfuzionale e tutti quei begli ingredienti che oggi diamo per scontati ma che Spielberg riesce a rendere freschi comunque).
Ovviamente il film è bellissimo, coinvolgente, forse un po’ lungo. Le mie scene preferite sono la scoperta della “vita vera della madre” attraverso la pellicola filmata, quella con John Ford e tutte le scene in cui il giovane Spiel… Fabelman escogita metodi da quattro soldi per far sembrare i suoi cortometraggi dei film con budget molto più alto.
Quella, nella fattispecie, è una cosa con la quale posso entrare parecchio in contatto 😉 #recensioniflash

WEIRD: THE AL YANKOVIC STORY (Eric Appel, 2022)

Ci tenevo a vedere questo filmello che mi ha ricordato il buon Fabio Zanello😁
E niente, è la storia di Weird Al Yankovic, che già di per sé rende il film degno di essere visto. Poi ci sono Daniel Radcliffe nel titular role che è tanta roba, e c’è Evan Rachel Wood nei panni di Madonna epoca Like a Virgin e Rainn Wilson in quelli del Dr. Demento (il de-mentore di Al).
Al di là di quello è un film che fa sorridere per il suo essere una meta-parodia, in cui i grandi successi di Weird Al ci sono quasi tutti (Eat It, Another One Takes the Bus, I Love Rocky Road, My Bologna, Amish Paradise etc) ma la loro genesi viene raccontata in maniera surreale e molto sopra le righe.
Basti pensare che ad un certo punto Weird Al e Madonna si trovano al cospetto di Pablo Escobar, che vuole a tutti i costi che Al si esibisca per lui. Ma Al lo uccide per salvare Madonna e lei prende la situazione in mano diventando la nuova capa del cartello messicano.
Secondo il film la storia di Weird Al si interromperebbe nel 1985, momento in cui Madonna lo fa uccidere durante i Music Awards da un killer con il fucile mitragliatore. Fortunatamente Weird Al Yankovic è vivo e lotta insieme a noi con la sua fisarmonica! #recensioniflash

THE INNOCENTS (Eskil Vogt, 2022) – Prime noleggio

Quest’anno mi sono innamorato dei film scandinavi. Dopo Triangle of Sadness e The Worst Person in the World è arrivato questo The Innocents di Eskil Vogt (anche sceneggiatore di TWPITW). Potremmo definire The Innocents un thriller-dramma sui poteri ESP (telecinesi etc). In realtà è assolutamente uno degli horror più disturbanti dell’anno.
Lo capisci quasi subito, quando vedi questi graziosi sobborghi norvegesi e incontri Ida, la protagonista di 9 anni e la sorella maggiore Anna (autistica). Ida è malvagia come sono malvagi tutti i bambini, ma forse n po’ di più. Pizzica a sangue la sorella che sembra non reagire al dolore solo per il gusto di farlo, e in una scena le infila dei cocci di vetro nelle scarpe per ferirla, così, de botto, senza un perché.
Ida fa subito amicizia con Ben, un ragazzino immigrato un po’ nerd e (scopriamo) col dono della telecinesi. Ben è ancora più malvagio di Ida, insieme giocano a far precipitare un gatto dalla tromba delle scale per poi ritrovarlo zoppicante e schiacciargli il cranio così, come se nulla fosse.
Poi c’è Aisha, che legge nel pensiero o comunque è super empatica e riesce a comunicare e addirittura a far parlare Anna, che (scopriamo a poco a poco) è dotata degli stessi poteri di telecinesi di Ben.
I bambini (che tra l’altro sono tutti bravissimi, cosa molto rara in questo tipo di film) si esercitano ad usare i loro poteri finché succedono diverse cose terribili da campionato mondiale del disagio e nascono antipatie. Queste antipatie ovviamente andranno alle estreme conseguenza.
Raramente si sono visti in un film bambini così naturali e così intimamente perfidi, per me è sicuramente l’horror dell’anno. Insieme a Speak No Evil, che gioca un po’ nello stesso campionato. Eccezionale. #recensioniflash

PEARL (Ti West, 2022)

Pearl è il prequel di X, a sua volta uno dei migliori horror della stagione, figlio dell’amore di Ti West e Mia Goth per il genere. Laddove X era la storia anni ’70 di una troupe che girava un porno in una fattoria abitata da due vecchi inquietanti in cui si scopriva che la vecchia era una pericolosa assassina, Pearl esplora… l’adolescenza della vecchia.
Mia Goth, che già in X interpretava sia la protagonista che la vecchia Pearl qui è Pearl da giovane, che lavora nella stessa fattoria negli anni ’20, si appassiona di danza e di cinema (muto, ovviamente) e cerca disperatamente di fuggire da un ambiente opprimente e soffocante creato da una madre che potrebbe diventare amicissima della madre di Carrie e un padre disabile.
Solo che Pearl ha qualcosa che non va nella testa, e ben presto comincia a uccidere con forconi, pale e vari altri strumenti da fattoria, tra cui il proverbiale coccodrillo già visto in X che – scopriamo qui – si chiama Theda (come Theda Bara, capito).
Ora, la cosa figa di Pearl è che è girato con colori super saturi, con uno stile di messa in scena, di ripresa e di montaggio più tipiche di un mélo anni ’50 alla Douglas Sirk che di un horror A24, sempre sul filo del grottesco più che su quello dell’horror puro e duro (lo testimonia il lunghissimo, esasperante primo piano che chiude il film, che comunque è un pezzo di bravura di Mia Goth).
E capite che un horror contemporaneo ambientato all’epoca del cinema muto ma girato come un mélo anni ’50 è una cosa da vedere assolutamente. #recensioniflash

GLASS ONION (Rian Johnson, 2022) – Netflix

Premetto che non sono un fan accanito delle detective stories. Mi piacciono, non dico di no, ma non ne vado matto. Knives Out è stato un ottimo veicolo per Daniel Craig per scrollarsi sapientemente di dosso il personaggio di Bond (anche se ora c’è da sperare che non gli rimanga cucito addosso quello del detective Blanc).
Glass Onion è di nuovo un simpatico e sapiente gioco ad incastro tra piani contorti, moventi e occasioni delittuose da svelare, una storia a orologeria tutto sommato banale ma godibile con attori in gran spolvero e una regia sicura. Man mano che procede fa sollevare più di un sopracciglio ma diverte e tanto basta.
Blanc stavolta è coinvolto (non diciamo come) in una vacanza di gruppo su un’isola greca in cui gli amici di un miliardario alla Elon Musk (Ed Norton) saranno testimoni (forse, chissà) di un omicidio o più di uno. C’è Kate Hudson che fa Kate Hudson, Dave Bautista che fa l’influencer, ma soprattutto c’è Janelle Monae in un doppio ruolo epico.
Si passano un paio d’ore spensierate. #recensioniflash

FIRE OF LOVE (Sara Dosa, 2022) – Disney+

Nella categoria documentari, Fire of Love è decisamente il film dell’anno. La storia di Katia e Maurice Krafft che si conoscono negli anni ’60, sono accomunati dalla stessa passione per i vulcani, diventano la coppia di vulcanologi più famosa al mondo e infine nel ’91 muoiono tenendosi per mano investiti dall’eruzione del vulcano Unzen in Giappone.
Il film, narrato da Miranda July e girato da un’amica dei due vulcanologi, ricostruisce la storia d’amore tra Katia e Maurice e tra loro e i numerosi vulcani che visitano, filmano, documentano, fotografano. Una testimonianza naturalistica rara (c’è anche Into The Inferno di Herzog sullo stesso tema) ma anche un’indagine poetica ed esistenziale sulla fascinazione per la natura.
La storia vera ci fa capire che senza i Krafft non distingueremmo, ad oggi, i vari tipi di vulcani (rossi e grigi) e non avremmo protocolli di evacuazione adeguati. La metafora, o l’allegoria, come vogliamo chiamarla, è quella dell’uomo che non è “contro” la natura ma che vuole immergersi in essa fino ad annullarvisi (e qui in effetti Herzog forse coglieva meglio).
La musica, onirica e coinvolgente, è di Nicholas Godin degli Air. Vedetelo su Disney+. #recensioniflash

THE BANSHEES OF INISHERIN (Martin McDonagh, 2022)

The Banshees of Inisherin è un curiosissimo film irlandese, molto irlandese. Almeno, io mi figuro che questo spirito sia un po’ quello che possiamo chiamare “humour irlandese”.
In un villaggio nell’isola di Inisherin al largo della costa di Galway, negli anni ’20, vivono due amici, Padraic (Colin Farrell) e Colm (Brendan Gleeson), la stessa coppia di In Bruges, un precedente film dello stesso regista, Martin McDonagh.
Il caso vuole che Colm non voglia più essere amico di Padraic, non vuole nemmeno che Padraic gli parli. Lo considera noioso e non vuole più avere nulla a che fare con lui, cambia persino posto al pub quando lo vede.
Padraic non si capacita e insiste per chiedere spiegazioni. Colm gli dice che se insiste a parlargli si taglierà un dito dopo l’altro per fargli capire che non scherza. E, fedele alla parola data, inizia a tagliarsi le dita con un paio di cesoie arruginite.
Ecco, questa è la premessa del film, che poi continua su binari surreali e fino alla fine non si capisce dove voglia andare a parare (spoiler: non va a parare da nessuna parte, perché probabilmente lo humor irlandese è come quelle barzellette assurde che si interrompono sul più bello).
Fotografia che sia in interni che in esterni cita capolavori della pittura da Vermeer a Turner, recitazione e dialoghi perfetti, risate e surrealismo che si mescolano ad un senso tragico dell’esistenza con un equilibrio che ha del miracoloso.
Comunque, assolutamente da vedere, soprattutto se siete appassionati di Irlanda e di accenti irlandesi. #recensioniflash

AVATAR: THE WAY OF THE WATER (James Cameron, 2022)

Dai, ve lo dico subito. Secondo me Avatar: The Way of the Water è per molti versi meglio del primo Avatar. Ha una storia più “relatable”, non deve perder tempo in troppi spiegoni, il world building e la lore di Pandora sono già stabiliti: insomma, c’è più spazio per una bella storia.
Detto ciò, bella storia per Cameron vuol dire a) beccare in modo trasversale un target di adulti e bambini, appassionati di sci-fi e di fantasy, impallinati dell’animazione digitale e ambientalisti, ma anche i campioni delle esplosioni guerrafondaie e b) comprimere in 3 ore e 15 minuti tre film interi in uno solo.
Primo film: il sequel di Avatar. Jake Sully e Neytiri (che non sembrano invecchiati di una virgola, ve’) hanno messo su famiglia e hanno ben 4 figli, figlio maggiore assennato, figlio minore un po’ sbandato, figlia piccola con talento comico e figlia adottiva partorita dall’Avatar della dottoressa Grace che NON SI SA CHI L’HA MESSA INCINTA (grosso mistero che non viene svelato buuuu). Vivono tutti in armonia nella foreste di Pandora ma ecco che tornano gli alieni cattivi (cioè gli umani) che stavolta vogliono sfruttare un’altra roba sfruttabile di Pandora o comunque rovinare irrimediabilmente l’ecosistema. Fun Fact: il cattivissimo colonnello Quarritch ora è un Avatar anche lui (cioè è tipo morto con la sua personalità uploadata in un clone Avatar… vabbè).
Secondo film: Jake e famiglia scappano perché capiscono che è l’unico modo per proteggere gli Omatekaya. Approdano da uno dei popoli del mare. Per un’ora e mezza vediamo i popoli del mare, il mare, le creature marine, le tradizioni dei popoli del mare, la tensione sessuale tra i figli di Jake e i figli del capo villaggio del popolo del mare, i simpatici balenoni telepatici dagli occhi tristi, i pescioni volanti e tutte cose. Questa sinceramente è la parte migliore di Avatar e quella che – se vai a uno spettacolo 3D – ti fa ancora dire ooooh come se fossi un bimbo.
Terzo film: boom crash bang esplosioni lamiere contorte esoscheletri mitragliatori, militari cattivi, baleniere, arpioni, moby dick, pericolo estremo, azione pura. Tutto sommato sbadiglievole. E poi tutto si resetta per il prossimo sequel.
Ottima resa, film meh. #recensioniflash

THE GREY MAN (Russo Bros., 2022) – Netflix

Confesso che ho visto The Gray Man in uno stato di stupefatto torpore, quindi potrei non avere il più competente dei pareri. Di sicuro è un film migliore di Six Underground. Ma di sicuro non è John Wick.
Comunque è un film divertente con il classico agente sotto copertura (Ryan Gosling) che deve proteggere la figlia del suo ex capo (Billy Bob Thornton) aiutato da un’agente che si ribella all’establishment (Ana De Armas) e osteggiato da un sadico Chris Evans coi baffetti.
Ci sono dei bei combattimenti e diverse spettacolari scene d’azione, ma a dire il vero verso la metà devo essermi addormentato e non ho tutta questa voglia di rivederlo, quindi boh, change my mind. #recensioniflash

DECISION TO LEAVE (Park Chan-Wook, 2022)

Cosa dire di Decision to Leave di Park Chan-Wook? Che per me è a sorpresa nella top five dei film dell’anno, visto in corner in questi ultimi giorni di dicembre in cui tradizionalmente scopro le migliori perle cinematografiche.
Una storia e una messa in scena decisamente hitchcockiana ma senza il citazionismo tipico di un De Palma, anzi con un piglio personale e una cifra stilistica molto netta e particolare: innumerevoli riprese di riflessi, specchi, vetrine, un gioco continuo di fuoco e fuori fuoco sui diversi piani, angolazioni assurde anche per un acrobata del cinema come Park (tipo: la soggettiva dall’occhio del morto o dall’occhio del pesce).
La storia è un classico noir rivisto in salsa coreana: l’integerrimo detective Hae-Jun, specializzato in casi irrisolti e in appostamenti notturni (soffre di insonnia) incappa nel caso di un morto caduto da una montagna. Ma è caduto, si è buttato o è stato spinto? Magari dalla moglie immigrata cinese, la bellissima e misteriosa Seo-Rae?
Da questa premessa si dipana un racconto che – è il caso di dirlo – è serpentino, nel senso che ti avvolge nelle sue spire fino a stritolarti sul finale. Seo-Rae è quello che dice di essere? E se in qualche misura è colpevole dell’omicidio del marito, Hae-Jun non si sta forse innamorando di lei? E non finirà comunque per proteggerla?
Un gioco di specchi (letteralmente e metaforicamente) che fa anche un uso intelligente delle nuove tecnologie e ha un finale di quelli che ti straziano. Bellissimo. #recensioniflash

MEN (Alex Garland, 2022)

Il penultimo film dell’anno è Men di Alex Garland, un horror A24 (per i quali sapete che io ho un importante innamoramento) che con qualche difficoltà riesce a stare in bilico tra l’horror efficace e il metaforone di grana grossa. Cioè, ogni tanto il metaforone diventa un po’ esagerato e banale, ma Garland ci fa una bella iniezione di body-folk-horror e lo rimette sulla retta via.
Men in sostanza è un film che mette in scena i rapporti di potere all’interno della società patriarcale approfittando della storia di una donna vittima di una relazione tossica che – dopo un fattaccio che non vi spoilero – va in vacanza due settimane in una meravigliosa casa nel countryside inglese.
Tutto è verdissimo, i fiori sono bellissimi, la natura è silenziosissima, la casa è arredata benissimo, il padrone di casa è cringissimo, ma a lei tutto questo potrebbe anche piacere, vale tutto pur di non pensare alla sua relazione tossica.
Il problema inizia ad emergere quando vediamo che: 1) c’è un tizio supercreepy che ama mostrarsi col cazzo di fuori dietro le finestre del cottage, 2) c’è un ragazzino con la faccia da vecchio che vuole giocare a nascondino e quando lei non ci sta la chiama stupida troia, 3) ci sono una serie di personaggi che incarnano i vari aspetti del patriarcato tutti interpretati dallo stesso attore (Rory Kinnear) che poi è anche l’interprete del padrone di casa stesso.
C’è molta tensione, c’è moltissimo paganesimo alla Wicker Man (gli inglesi sono molto bravi in questo), c’è un finale che è talmente spinto al massimo sul pedale del body horror che mi ha fatto pensare al capolavoro di Brian Yuzna, Society.
Alla fine un pochettino tutto è rovinato dalla consapevolezza che stai assistendo a un metaforone visivo di grana molto grossa (i mostri partoriti dal patriarcato), ma evidentemente serve anche questo. Credo di aver scritto almeno tre volte la parola “patriarcato”, quindi a posto così. #recensioniflash

BELLE (Mamoru Hosoda, 2022)

Belle di Mamoru Hosoda è sicuramente per me l’anime dell’anno. Intanto è una rilettura molto particolare della fiaba La Bella e la Bestia ambientata ai giorni nostri in un metaverso che potrebbe essere una evoluzione più spinta dell’attuale Fortnite, per dire.
Belle è una cantante famosissima nel metaverso che incontra in quello stesso ambiente la Bestia, un personaggio altrettanto famoso ma temuto per le sue azioni di disturbo. In un ambiente caleidoscopico pieno di follower e hater, costantemente affollato di tab, commenti, messaggi vocali e testuali, video feed e avatar di vario genere, Belle cerca di rintracciare la Bestia per capire chi lui sia veramente nel mondo reale.
Il “mondo reale” di Belle è un paesino del sud del giappone in cui Suzu, liceale triste e orfana di madre, riesce a liberare la sua vera voce solo entrando nel metaverso con il personaggio di Belle (ovviamente a scuola è quasi completamente ignorata).
Ne consegue una sorta di forsennata indagine fuori e dentro il metaverso per scoprire la vera identità della Bestia, che Suzu stanerà solo mostrandosi per quello che è e non nei panni della idol Belle.
Il tema del film è ovviamente quello della fama on line, del rapporto con hardcore fans e haters, della maschera che amiamo indossare per sentirci più protetti e dei pericoli (ma anche delle opportunità) di una vita in cui on line e off line sono strettamente intrecciati.
Lo stile visivo di Mamoru Hosoda è qui al suo top, ed è interessante vedere come – più ancora che in Mirai – le nuove tecnologie e i linguaggi del gaming entrino direttamente nella costruzione delle inquadrature del film. Per chi apprezza, poi, ci sono molte canzoni J-Pop (io però l’ho visto in inglese quindi non saprei). #recensioniflash