LA RESURREZIONE DELL’IMMAGINARIO

Lo scorso dicembre ho visto moltissimi film. Quindi siccome questo sarà un post estremamente lungo, faccio che dar spazio subito alla raccoltona del mese. Solo una nota per giustificare il titolo. Parliamo sempre di morte dell’immaginario. In realtà in questo scorcio del 2022 possiamo dire che un pochettino stia risorgendo… no? Let’s go.

GUILLERMO DEL TORO’S PINOCCHIO (Guillermo del Toro, 2022) – Netflix

“Un altro Pinocchio?” sbufferanno i miei venticinque lettori… Sì bambini, ma non è il solito Pinocchio di sempre. È il “Guillermo Del Toro’s Pinocchio”, e il guglielmone si prende tutte le libertà del caso inserendo il suo ingombrante nome direttamente nel titolo.
Di Pinocchio è pieno il mondo del cinema, specialmente in questo ventunesimo secolo. Quasi tutti si confrontano con il classico Disney del 1940, pochi si confrontano con il testo originale, solo uno parte per la tangente inventando e allegorizzando: questo Pinocchio. Guillermo Del Toro’s Pinocchio.
Ma non è mica un male, eh? Appurato che del Pinocchio originale, come della Bibbia, Del Toro fa un cherry picking salvando le parti che interessano di più e innestandoci sopra un po’ di Laberinto del Fauno e un po’ di Espinazo del diablo, il film – in uno stupefacente stop motion che va al di là anche degli stop motion più intriganti nella misura in cui non “sostituisce le facce” per fare le espressioni ma deforma direttamente e meccanicamente il puppet originale (vabbè, tecnicismi, ma dovete vedere il risultato finale) – procede in una direzione sorprendente.
Come Zemeckis, Del Toro innesta l’idea di Pinocchio nella mente di un Geppetto che ha perso il suo figlio vero. In questo film Carlo (il bambino vero) muore sotto un bombardamento del ’15-’18 e Geppetto diventa un alcolista che anni dopo – in pieno fascismo – crea il burattino dal legno di un pino che cresceva sulla tomba dell’amatissimo figliolo.
La creazione non ha nulla di allegro, è più simile alla creazione di Frankenstein che del Pinocchio disneyano. Pinocchio stesso è grezzo, nudo, legnoso e “non finito”. Il design dei personaggi, di Grim Grisly, fa veramente miracoli: Pinocchio è da subito un agente del caos. Non è carino, non è buono e non è cattivo. È semplicemente un fenomeno naturale che distrugge ogni convenzione e mette in crisi ogni valore e ogni verità (bellissima la scena in chiesa in cui chiede a Geppetto perché tutti amano il Cristo che è di legno e disprezzano lui che è anche fatto di legno).
Del Toro fonde Mangiafuoco, il gatto e la volpe in un antagonista unico (il conte Volpe) aiutato da una scimmia intelligente di nome Spazzatura: Volpe scrittura Pinocchio e lo costringe ad esibirsi, poi la storia procede come sappiamo, pescecane compreso. Il twist alla Del Toro sta nel fatto che la fata turchina è in realtà un inquietante spirito della vita che dà vita a Pinocchio per consolare Geppetto e incarica il grillo (Sebastian J. Cricket, LOL) di indirizzarlo verso il bene. Pinocchio però può morire e rinascere, e lo fa più volte nel corso del film, accompagnato nell’oltretomba dai classici conigli portabara vestiti di nero. Nell’oltretomba incontra lo spirito della morte, la sorella dello spirito della vita, che gli spiega le “regole dell’eterno ritorno”.
Detto ciò, l’ambientazione fascista potrebbe sembrare un inutile pretesto, ma invece è parte integrante della storia: ad un certo punto Pinocchio si esibisce per Mussolini in persona, riempiendolo letteralmente di merda, e il paese dei balocchi nel quale Pinocchio viene portato con Lucignolo (a sua volta figlio di un gerarca) è un campo di addestramento militare per Balilla.
Insomma, un film da vedere che colpisce per l’aspetto visivo ma anche per molti aspetti della sceneggiatura (di Joel Mc Hale, quello di Over the Garden Wall) che è estremamente malinconica e per un finale che lascia l’amaro in bocca. Le voci sono superlative (Tilda Swinton, Ewan McGregor, Cate Blanchett, Ron Perlman, David Bradley, Cristoph Waltz), l’unico neo è aver infilato secondo me un paio di canzoncine di troppo, forse per rendere il progetto più gradito ai più piccoli: ma Guillermo Del Toro’s Pinocchio non è un film per bambini. Almeno non nel senso convenzionale del termine.
Se non altro in famiglia ha suscitato curiosità intorno al fascismo e alla guerra, a qualcosa è servito. #recensioniflash

SCREAM (Matt Bettinelli-Olpin, Tyler Gillett, 2022) – AppleTV noleggio

Scream (2022) si intitola come Scream (1996) e non potrebbe essere altrimenti dato che – lo spiegano direttamente in una scena del film – si tratta di un REQUEL (un remake che è anche un sequel). Vabbè vi vedo già che vi alzate e ve ne andate, ma signori, vi dico subito che non è poi così male questo Scream.

Confesso che io l’ho iniziato solo per due motivi: 1) Jenna Ortega e 2) sto masochisticamente guardando tutti i seqremrebpreq dei franchise horror usciti quest’anno. Poi però l’ho guardato con gusto. Perché se già il primo Scream era la nascita dell’horror postmoderno negli anni ’90, questo Scream non può che essere postmoderno al quadrato, anzi al cubo, in un gioco di rimandi che fa un po’ girare la testa e che strappa più di un sorriso.

Per dire, in una sequenza una potenziale vittima sdraiata sul divano guarda una scena di Stab (il film fittizio nel film che veniva immaginato in Scream 2) in cui Ghostface sta per accoltellare un tizio sdraiato sul divano… e ovviamente anche dietro di lei c’è il nuovo Ghostface col pugnale in mano!

Scream (2022) è una galleria degli specchi dalla quale non si sa come uscire, una sceneggiatura che cerca di sorprendere (e qualche volta ci riesce) nel solito vecchio gioco di “chi è l’assassino”, con in più la autoconsapevolezza di un franchise che già di suo voleva essere metacinematografico e adesso è meta-meta-metacinematografico.

il requel perfetto deve avere qualche personaggio della “tradizione” (ed ecco che tornano Neve Campbell, Courteney Cox e David Arquette), un killer (meglio due killer) che hanno un legame col passato e che in questo caso interpretano il fenomeno del fandom on line, una serie di adolescenti potenzialmente sospettabili.

Vi dico solo che per un fan dell’horror la prima sequenza con Jenna Ortega (ricalcata sulla prima sequenza dell’originale con Drew Barrymore) è godibilissima. Lei è una fan dell’elevated horror A24 e non capisce i riferimenti di Ghostface agli slasher anni ’80-’90 e nel momento clou urla disperata “No! No! Chiedimi di Hereditary! Chiedimi di It Follows, di The Witch!”. SuperLOL.

Oh, comunque per me è un sì e dirò di più, tra questo, Halloween Ends e Hellraiser nuovo vince Scream a piene mani. #recensioniflash

BLACK ADAM (Jaume Collet-Serra, 2022) – AppleTV noleggio

Visti per voi: Black Adam con THE ROCK. Black Adam è ovviamente un film costruito su THE ROCK e che risponde essenzialmente alla domanda “…e se THE ROCK avesse i superpoteri?”. Purtroppo la domanda è mal posta perché tutti sanno che THE ROCK ha GIÀ i superpoteri, ma facciamo finta di nulla.
Black Adam è la origin story di un supereroe mediorientale (come Moon Knight, via) che però invece di essere Marvel è DC, quindi a un certo punto è attorniato da supereroi imbarazzanti non meglio identificati quali Hawkman (vabbè quello lo conoscevo), Dr. Fate (il Dr. Strange della DC), Cyclone e Atom Smasher (LOL).
In una scena post credits però c’è Superman. Ve l’ho detto.
Comunque c’è questo popolo di protosumeri, o accadi, o ittiti, quel che sia, comunque si esprimono in cuneiforme, il cui re è cattivissimo e vuole una corona demoniaca MA i maghi psichedelici dicono SHAZAM! e arriva Black Adam a sgominare tutti. Solo che fa casino uccide troppa gente e lo rinchiudono in una supertomba.
Ai giorni nostri l’immaginaria nazione di Khandaq è dominata da cattivissimi tecnocrati col mitra e Black Adam viene risvegliato anche perché il capo dei tecnocrati mira alla corona demoniaca. Ne conseguono ripetute gag DIVERTENTISSIME sul fatto che Black Adam non è come i supereroi di oggi che potendo evitano di uccidere. Lui uccide a manetta.
Jaume Collet-Serra si deve essere molto divertito, ammettiamolo. Lo spettatore si vede propinare sullo schermo non la Justice League ma la Justice Society (la Justice League dei poveri, insomma), e poi va beh, il film scorre via comunque meno pesante di un Avengers qualsiasi.
Nota di colore: pare che THE ROCK stia dando molto in testa alla WB e alla DC perché vorrebbe continuare con Black Adam 2 e un crossover con Superman, ma a quanto pare gli hanno detto no. Chissà poi perché. #recensioniflash

SPEAK NO EVIL (Christian Tafdrup, 2022)

Il mio amico Lorenzo sostiene che io a volte guardo i film del Disagio perché ho un gusto perverso per le cose brutte. Dice che a volte lo porto a vedere delle robe che lui non ci porterebbe nemmeno il suo peggior nemico.
Ecco: Speak No Evil, del regista danese Christian Tafdrup, è esattamente il tipo di film del Disagio che probabilmente lui mi stroncherebbe. O forse no. Dovrò chiedere il suo parere.
Speak No Evil è un horror, non ci sono dubbi, e uno dei più potenti degli ultimi anni. Ma in Speak No Evil si vede poco sangue, per dire (comunque, se date retta a me, quel poco che si vede basta e avanza). Speak No Evil parte come una commedia nera nordeuropea, procede accumulando piccole gocce di tensione, poi proprio secchiate di tensione, ma in sostanza non succede veramente un cazzo per un’ora e un quarto. Poi nell’ultimo quarto d’ora succede TUTTO, e quel tutto me lo sognerò per mesi.
La trama in breve: famigliola danese in vacanza in Toscana conosce famigliola olandese in vacanza nello stesso resort con grazioso bimbo della stessa età della loro bimba. Soprattutto i due uomini sembrano legare molto. Poi in inverno la famigliola olandese invita la famigliola danese a passare un weekend da loro nella campagna nederlandese. La mamma danese è un po’ titubante, perché dai, è gente che abbiamo visto per una settimana mesi fa, ma il papà danese dice VUOI MICA DIRE DI NO, È MALEDUCAZIONE.
E questo fatto dell’essere beneducati, del rifuggere il conflitto, dell’essere accomodanti per non fare la figura degli stronzi è precisamente il tema del film (un tema con il quale molti potranno identificarsi pienamente, specialmente in terra sabauda). Perché la buona educazione in Speak No Evil porta a conseguenze indicibili e ad un finale che – se tutto il film è Disagio – è veramente Incubo Senza Uscita e Senza Pietà.
Lo scambio di battute finale peraltro è la cosa più angosciante sentita in un film dai tempi di Michael Haneke. D’altra parte lo spettatore è avvertito fin dall’inizio, dal momento in cui su scene apparentemente ordinarie rimbomba una colonna sonora che manco Shining.
Ora non mi resta che capire se posso far vedere questo film al mio amico Lorenzo o no.
Perché a lui comunque le commedie europee piacciono.
Potrei stopparglielo a 20 minuti dalla fine, forse.
Oppure no. E poi farmi odiare per l’eternità. #recensioniflash

THREE THOUSAND YEARS OF LONGING (George Miller, 2022)

Un film che esce con un trailer con un pezzo come quello dei SUUNS è già un oggetto non identificato da tenere d’occhio in partenza.
Quando poi finalmente lo vedi, 3.000 Years of Longing – l’ultimo film di George Miller, l’uomo che ci ha consegnato il film capolavoro del ventinesimo secolo – mantiene abbastanza le promesse di film surreale, immaginifico, misterioso, metanarrativo, ipnotico e affascinante.
Voglio dire, una fiaba d’amore per adulti con Tilda Swinton e Idris Elba, i due attori più fichi dell’universo, vuoi non vederla? Il film è ovviamente imperfetto, ha qualche caduta di ritmo ma non si può dire che non sia un film che OSA.
Tilda Swinton è Aletheia (notare il nome), una studiosa di narratologia che arriva a Istanbul per un convegno. Compra un souvenir nel bazaar, una bottiglietta. Dentro la bottiglietta c’è un Djinn (Idris Elba) che si trova a raccontare storie a una che delle storie e dei miti ha fatto la sua professione. Il Djinn racconta i suoi “tremila anni di desiderio” passati da una padrona all’altra (la regina di Saba, una concubina di Souleyman il magnifico, una donna-genio nella Turchia Ottomana) e intanto fa innamorare la solitaria Aletheia…
Vi potete aspettare effetti digitali impeccabili, un’occhio per la messa in scena eccezionale (roba che se ci metteva le mani Tarsem Singh era una tragedia), un film tutto sommato molto parlato, molto raccontato, ma emozionante e commovente.
Forse fa un po’ parte di quel filone che Miller ha esplorato in L’olio di Lorenzo e Le streghe di Eastwick (che può non piacere, diciamocelo), ma averne sempre a pacchi di registi come lui.
Per me è un convintissimo sì, da noi uscirà con l’anno nuovo, ma si trova già da mesi, ehm… in giro. #recensioniflash

MOONAGE DAYDREAM (Brett Morgen, 2022) – Prime noleggio

Che cosa vi posso dire di Moonage Daydream, il documentario fiume sulla mente di David Bowie? Innanzitutto che non è un documentario sulla sua musica o sulla sua carriera, o sulle evoluzioni del suo personaggio.
Si tratta proprio, come dicevo, di un film che tenta di cogliere i processi mentali di Bowie. Quindi un film prettamente sperimentale di due ore e passa, in cui troviamo videoarte, brani di interviste, spezzoni di concerti, ma tutti “lavorati” in postproduzione con pazienza certosina per riproporre un’esperienza psichedelica… un sogno ad occhi aperti dell’epoca della Luna, come da titolo azzeccatissimo.
I fan di Bowie potrebbero esaltarsi tantissimo o anche rimanere molto delusi. Di sicuro è un film che finché mette a fuoco Ziggy Stardust, Aladdin Sane, il primo periodo americano, il momento del Thin White Duke ad arrivare fino a Scary Monsters ci sta dentro tantissimo.
Posi si sfalda un po’ e si comincia a patire la lunghezza (e d’altro canto i percorsi artistici del Bowie degli ultimi vent’anni sono risolti in mezz’ora di sinestesie un po’ forzate).
Comunque uno dei migliori film dell’anno per il fatto che “osa”, che a mio avviso è già una buona cosa nel panorama odierno. #recensioniflash

BONES AND ALL (Luca Guadagnino, 2022)

Ho imparato ad amare molto la visione di Luca Guadagnino negli anni (all’inizio mi stava sulle palle, devo ammetterlo). Questo suo Bones and All mi è sembrata una tappa importante nel suo cinema, anche in termini di “summa” (o per i detrattori, di “autocitazione”).
Se ci fosse ancora bisogno di sottolineare che Guadagnino è il più internazionale dei registi italiani, qui ci offre uno sguardo sull’America (filtrato dall’ambientazione late eighties) che mi ha ricordato quello di altri grandi registi europei, come Wenders al tempo di Paris, Texas, per dire.
Se scomodo questi paragoni è ovviamente perché il film mi è piaciuto assai, proprio per il suo essere parte di un discorso sull’amore, sulle relazioni, sull’identità e – perché no – anche sul cibo che Guadagnino porta avanti da tempo.
La storia di Maren e Lee procede esattamente come i grandi classici on the road del calibro di Badlands, Bonnie and Clyde o Natural Born Killers (ma in quel caso con una furia postmoderna che qui non ritroviamo). La storia la sapete tutti, Maren (Taylor Russell) è una ragazza che ha un problema di cannibalismo, il padre non riesce più a gestirla e la abbandona. Parte un viaggio nell’america più profonda dove lei incontra altri “eaters”: un eccezionale Mark Rylance nell’inquietante ruolo di Sully e soprattutto Lee, interpretato da un Timothée Chalamet che si conferma sempre più “ultimo divo” dei nostri anni.
Come sempre con Guadagnino è riduttivo parlare di film di genere: Bones and All è evidentemente un horror (per stomaci forti, peraltro, perché tutte le scene di cannibalismo sono estremamente ben rese, nella grande tradizione italiana di Ruggero Deodato, Umberto Lenzi, etc). La coppia di cannibali rispecchia un po’ la coppia di vampiri di Interview with a Vampire, e del resto c’è anche qui un sottotesto queer che pulsa sotto la superficie delle immagini.
Tutto il film è girato in un modo che mi ha ricordato le fotografie di Gregory Crewdson, i suoi paesaggi un po’ Lynch un po’ Terence Malick. I personaggi (che , ricordiamolo, sono prima di tutto eroi di un romanzo young adult che Guadagnino ha adattato) hanno i loro traumi, le loro scoperte e le loro rivelazioni da fare fino a un finale amaro che per molti versi colpisce come quello di Call Me by Your Name. Ah, c’è anche Michael Stuhlberg (il papà in CBYN) in un ruolo supercreepy che fa rizzare i peli sulla schiena!
La colonna sonora di Reznor e Ross attraversa il film come un personaggio a sé, inanellando perle azzeccatissime come i Joy Division e i New Order (ho molto apprezzato). Non saprei che altro dire, io l’ho trovato meraviglioso e disperatamente romantico. #recensioniflash

CATHERINE CALLED BIRDY (Lena Dunham, 2022) – Prime

Se non avete ancora visto Catherine Called Birdy, su Prime Video, conviene che rimediate subito. Il film è la trasposizione di un romanzo young adult dallo stesso titolo, e racconta le avventure di una ragazzina nell’Inghilterra feudale del 1290.
Lena Dunham, che io amo da lontano da anni, ha realizzato una commedia medievale fresca e mai fuori fuoco, che parla del medioevo con un occhio al patriarcato odierno, aiutata da una protagonista in stato di grazia (Catherine è Bella Ramsey, la giovanissima Lady Mormont di Game of Thrones).
Catherine racconta le sue avventure in un diario che scrive per il fratello Edward, monaco in un’abbazia del circondario e si barcamena tra le amicizie con i ragazzi del popolo, un padre che cerca di maritarla a tutti i costi (Andrew Scott, magistrale), la nutrice, e una serie di pretendenti improbabili (tra cui Russell Brand e Paul Kaye).
Tutto il film è girato in modo iperrealistico, con un production design a metà tra Ridley Scott e i Monty Python, tra fango, merda e arazzi polverosi. Richiama moltissimo Game of Thrones per via del fatto che mezzo cast arriva da lì (e l’altra metà da famose serie TV inglesi, da Doctor Who in giù), ma il tono è ovviamente un altro, molto positivo e rinfrescante.
Bella Ramsey ha trovato a 19 anni già il ruolo di una vita per quanto infonde verità e naturalezza al personaggio di Catherine, ai suoi maneggi per evitare il marito, alla perizia con cui nasconde tra le assi del pavimento le pezzuole mestruali, ai suoi scherzi grossolani e assolutamente indegni di una dama.
Vedetelo in lingua originale che merita! #recensioniflash

THE FABELMANS (Steven Spielberg, 2022)

Ho visto The Spielbergs, pardon, The Fabelmans. Eh. Uno parte con l’idea del “non mi freghi” e poi resta fregato. The Fablemans è un film di sentimenti senza essere troppo sentimentale, e quindi la lacrima ci scappa, è inevitabile.
Lo sanno anche i muri che è la storia dell’infanzia e dell’adolescenza di Steven Spielberg in cui a quanto pare ha cambiato giusto i nomi… ho confrontato con stralci di interviste e documentari e pare che i genitori – cui il film è dedicato – fossero proprio così, facessero quei lavori lì, abbiano divorziato per quel motivo lì e che Spielberg abbia fatto proprio quei filmini lì, che il primo film che ha visto al cinema è stato proprio quello lì e la sua prima ripresa quella del trenino elettrico. Per tutto il film ho pensato che deve essere stato un po’ uno strazio personale ricreare la propria storia, i propri sogni e i propri traumi così, affidandoli a un gruppo di attori.
E quindi niente, il film si ferma quando il giovane regista in erba trova un lavoro alla CBS e gli fanno conoscere John Ford (scena bellissima e a quanto pare esattamente ricalcata sulla realtà, dialoghi, set e tutto).
Cosa c’è nel mezzo? Intanto un cast in stato di grazia: Paul Dano, Michelle Williams e Seth Rogen da Oscar subito (anche se i cameo di Judd Hirsch nei panni del vecchio zio squinternato e di DAVID LYNCH nei panni di John Ford quasi li oscurano).
Il ragazzetto che interpreta Spielberg è somigliante in modo inquietante e soprattutto non fa le faccette e non sembra il classico teenager da film di teenager (che non dimentichiamolo, c’è l’arte, il cinema, ma c’è anche il ballo della scuola, i bulletti da high school, la famiglia disfuzionale e tutti quei begli ingredienti che oggi diamo per scontati ma che Spielberg riesce a rendere freschi comunque).
Ovviamente il film è bellissimo, coinvolgente, forse un po’ lungo. Le mie scene preferite sono la scoperta della “vita vera della madre” attraverso la pellicola filmata, quella con John Ford e tutte le scene in cui il giovane Spiel… Fabelman escogita metodi da quattro soldi per far sembrare i suoi cortometraggi dei film con budget molto più alto.
Quella, nella fattispecie, è una cosa con la quale posso entrare parecchio in contatto 😉 #recensioniflash

WEIRD: THE AL YANKOVIC STORY (Eric Appel, 2022)

Ci tenevo a vedere questo filmello che mi ha ricordato il buon Fabio Zanello😁
E niente, è la storia di Weird Al Yankovic, che già di per sé rende il film degno di essere visto. Poi ci sono Daniel Radcliffe nel titular role che è tanta roba, e c’è Evan Rachel Wood nei panni di Madonna epoca Like a Virgin e Rainn Wilson in quelli del Dr. Demento (il de-mentore di Al).
Al di là di quello è un film che fa sorridere per il suo essere una meta-parodia, in cui i grandi successi di Weird Al ci sono quasi tutti (Eat It, Another One Takes the Bus, I Love Rocky Road, My Bologna, Amish Paradise etc) ma la loro genesi viene raccontata in maniera surreale e molto sopra le righe.
Basti pensare che ad un certo punto Weird Al e Madonna si trovano al cospetto di Pablo Escobar, che vuole a tutti i costi che Al si esibisca per lui. Ma Al lo uccide per salvare Madonna e lei prende la situazione in mano diventando la nuova capa del cartello messicano.
Secondo il film la storia di Weird Al si interromperebbe nel 1985, momento in cui Madonna lo fa uccidere durante i Music Awards da un killer con il fucile mitragliatore. Fortunatamente Weird Al Yankovic è vivo e lotta insieme a noi con la sua fisarmonica! #recensioniflash

THE INNOCENTS (Eskil Vogt, 2022) – Prime noleggio

Quest’anno mi sono innamorato dei film scandinavi. Dopo Triangle of Sadness e The Worst Person in the World è arrivato questo The Innocents di Eskil Vogt (anche sceneggiatore di TWPITW). Potremmo definire The Innocents un thriller-dramma sui poteri ESP (telecinesi etc). In realtà è assolutamente uno degli horror più disturbanti dell’anno.
Lo capisci quasi subito, quando vedi questi graziosi sobborghi norvegesi e incontri Ida, la protagonista di 9 anni e la sorella maggiore Anna (autistica). Ida è malvagia come sono malvagi tutti i bambini, ma forse n po’ di più. Pizzica a sangue la sorella che sembra non reagire al dolore solo per il gusto di farlo, e in una scena le infila dei cocci di vetro nelle scarpe per ferirla, così, de botto, senza un perché.
Ida fa subito amicizia con Ben, un ragazzino immigrato un po’ nerd e (scopriamo) col dono della telecinesi. Ben è ancora più malvagio di Ida, insieme giocano a far precipitare un gatto dalla tromba delle scale per poi ritrovarlo zoppicante e schiacciargli il cranio così, come se nulla fosse.
Poi c’è Aisha, che legge nel pensiero o comunque è super empatica e riesce a comunicare e addirittura a far parlare Anna, che (scopriamo a poco a poco) è dotata degli stessi poteri di telecinesi di Ben.
I bambini (che tra l’altro sono tutti bravissimi, cosa molto rara in questo tipo di film) si esercitano ad usare i loro poteri finché succedono diverse cose terribili da campionato mondiale del disagio e nascono antipatie. Queste antipatie ovviamente andranno alle estreme conseguenza.
Raramente si sono visti in un film bambini così naturali e così intimamente perfidi, per me è sicuramente l’horror dell’anno. Insieme a Speak No Evil, che gioca un po’ nello stesso campionato. Eccezionale. #recensioniflash

PEARL (Ti West, 2022)

Pearl è il prequel di X, a sua volta uno dei migliori horror della stagione, figlio dell’amore di Ti West e Mia Goth per il genere. Laddove X era la storia anni ’70 di una troupe che girava un porno in una fattoria abitata da due vecchi inquietanti in cui si scopriva che la vecchia era una pericolosa assassina, Pearl esplora… l’adolescenza della vecchia.
Mia Goth, che già in X interpretava sia la protagonista che la vecchia Pearl qui è Pearl da giovane, che lavora nella stessa fattoria negli anni ’20, si appassiona di danza e di cinema (muto, ovviamente) e cerca disperatamente di fuggire da un ambiente opprimente e soffocante creato da una madre che potrebbe diventare amicissima della madre di Carrie e un padre disabile.
Solo che Pearl ha qualcosa che non va nella testa, e ben presto comincia a uccidere con forconi, pale e vari altri strumenti da fattoria, tra cui il proverbiale coccodrillo già visto in X che – scopriamo qui – si chiama Theda (come Theda Bara, capito).
Ora, la cosa figa di Pearl è che è girato con colori super saturi, con uno stile di messa in scena, di ripresa e di montaggio più tipiche di un mélo anni ’50 alla Douglas Sirk che di un horror A24, sempre sul filo del grottesco più che su quello dell’horror puro e duro (lo testimonia il lunghissimo, esasperante primo piano che chiude il film, che comunque è un pezzo di bravura di Mia Goth).
E capite che un horror contemporaneo ambientato all’epoca del cinema muto ma girato come un mélo anni ’50 è una cosa da vedere assolutamente. #recensioniflash

GLASS ONION (Rian Johnson, 2022) – Netflix

Premetto che non sono un fan accanito delle detective stories. Mi piacciono, non dico di no, ma non ne vado matto. Knives Out è stato un ottimo veicolo per Daniel Craig per scrollarsi sapientemente di dosso il personaggio di Bond (anche se ora c’è da sperare che non gli rimanga cucito addosso quello del detective Blanc).
Glass Onion è di nuovo un simpatico e sapiente gioco ad incastro tra piani contorti, moventi e occasioni delittuose da svelare, una storia a orologeria tutto sommato banale ma godibile con attori in gran spolvero e una regia sicura. Man mano che procede fa sollevare più di un sopracciglio ma diverte e tanto basta.
Blanc stavolta è coinvolto (non diciamo come) in una vacanza di gruppo su un’isola greca in cui gli amici di un miliardario alla Elon Musk (Ed Norton) saranno testimoni (forse, chissà) di un omicidio o più di uno. C’è Kate Hudson che fa Kate Hudson, Dave Bautista che fa l’influencer, ma soprattutto c’è Janelle Monae in un doppio ruolo epico.
Si passano un paio d’ore spensierate. #recensioniflash

FIRE OF LOVE (Sara Dosa, 2022) – Disney+

Nella categoria documentari, Fire of Love è decisamente il film dell’anno. La storia di Katia e Maurice Krafft che si conoscono negli anni ’60, sono accomunati dalla stessa passione per i vulcani, diventano la coppia di vulcanologi più famosa al mondo e infine nel ’91 muoiono tenendosi per mano investiti dall’eruzione del vulcano Unzen in Giappone.
Il film, narrato da Miranda July e girato da un’amica dei due vulcanologi, ricostruisce la storia d’amore tra Katia e Maurice e tra loro e i numerosi vulcani che visitano, filmano, documentano, fotografano. Una testimonianza naturalistica rara (c’è anche Into The Inferno di Herzog sullo stesso tema) ma anche un’indagine poetica ed esistenziale sulla fascinazione per la natura.
La storia vera ci fa capire che senza i Krafft non distingueremmo, ad oggi, i vari tipi di vulcani (rossi e grigi) e non avremmo protocolli di evacuazione adeguati. La metafora, o l’allegoria, come vogliamo chiamarla, è quella dell’uomo che non è “contro” la natura ma che vuole immergersi in essa fino ad annullarvisi (e qui in effetti Herzog forse coglieva meglio).
La musica, onirica e coinvolgente, è di Nicholas Godin degli Air. Vedetelo su Disney+. #recensioniflash

THE BANSHEES OF INISHERIN (Martin McDonagh, 2022)

The Banshees of Inisherin è un curiosissimo film irlandese, molto irlandese. Almeno, io mi figuro che questo spirito sia un po’ quello che possiamo chiamare “humour irlandese”.
In un villaggio nell’isola di Inisherin al largo della costa di Galway, negli anni ’20, vivono due amici, Padraic (Colin Farrell) e Colm (Brendan Gleeson), la stessa coppia di In Bruges, un precedente film dello stesso regista, Martin McDonagh.
Il caso vuole che Colm non voglia più essere amico di Padraic, non vuole nemmeno che Padraic gli parli. Lo considera noioso e non vuole più avere nulla a che fare con lui, cambia persino posto al pub quando lo vede.
Padraic non si capacita e insiste per chiedere spiegazioni. Colm gli dice che se insiste a parlargli si taglierà un dito dopo l’altro per fargli capire che non scherza. E, fedele alla parola data, inizia a tagliarsi le dita con un paio di cesoie arruginite.
Ecco, questa è la premessa del film, che poi continua su binari surreali e fino alla fine non si capisce dove voglia andare a parare (spoiler: non va a parare da nessuna parte, perché probabilmente lo humor irlandese è come quelle barzellette assurde che si interrompono sul più bello).
Fotografia che sia in interni che in esterni cita capolavori della pittura da Vermeer a Turner, recitazione e dialoghi perfetti, risate e surrealismo che si mescolano ad un senso tragico dell’esistenza con un equilibrio che ha del miracoloso.
Comunque, assolutamente da vedere, soprattutto se siete appassionati di Irlanda e di accenti irlandesi. #recensioniflash

AVATAR: THE WAY OF THE WATER (James Cameron, 2022)

Dai, ve lo dico subito. Secondo me Avatar: The Way of the Water è per molti versi meglio del primo Avatar. Ha una storia più “relatable”, non deve perder tempo in troppi spiegoni, il world building e la lore di Pandora sono già stabiliti: insomma, c’è più spazio per una bella storia.
Detto ciò, bella storia per Cameron vuol dire a) beccare in modo trasversale un target di adulti e bambini, appassionati di sci-fi e di fantasy, impallinati dell’animazione digitale e ambientalisti, ma anche i campioni delle esplosioni guerrafondaie e b) comprimere in 3 ore e 15 minuti tre film interi in uno solo.
Primo film: il sequel di Avatar. Jake Sully e Neytiri (che non sembrano invecchiati di una virgola, ve’) hanno messo su famiglia e hanno ben 4 figli, figlio maggiore assennato, figlio minore un po’ sbandato, figlia piccola con talento comico e figlia adottiva partorita dall’Avatar della dottoressa Grace che NON SI SA CHI L’HA MESSA INCINTA (grosso mistero che non viene svelato buuuu). Vivono tutti in armonia nella foreste di Pandora ma ecco che tornano gli alieni cattivi (cioè gli umani) che stavolta vogliono sfruttare un’altra roba sfruttabile di Pandora o comunque rovinare irrimediabilmente l’ecosistema. Fun Fact: il cattivissimo colonnello Quarritch ora è un Avatar anche lui (cioè è tipo morto con la sua personalità uploadata in un clone Avatar… vabbè).
Secondo film: Jake e famiglia scappano perché capiscono che è l’unico modo per proteggere gli Omatekaya. Approdano da uno dei popoli del mare. Per un’ora e mezza vediamo i popoli del mare, il mare, le creature marine, le tradizioni dei popoli del mare, la tensione sessuale tra i figli di Jake e i figli del capo villaggio del popolo del mare, i simpatici balenoni telepatici dagli occhi tristi, i pescioni volanti e tutte cose. Questa sinceramente è la parte migliore di Avatar e quella che – se vai a uno spettacolo 3D – ti fa ancora dire ooooh come se fossi un bimbo.
Terzo film: boom crash bang esplosioni lamiere contorte esoscheletri mitragliatori, militari cattivi, baleniere, arpioni, moby dick, pericolo estremo, azione pura. Tutto sommato sbadiglievole. E poi tutto si resetta per il prossimo sequel.
Ottima resa, film meh. #recensioniflash

THE GREY MAN (Russo Bros., 2022) – Netflix

Confesso che ho visto The Gray Man in uno stato di stupefatto torpore, quindi potrei non avere il più competente dei pareri. Di sicuro è un film migliore di Six Underground. Ma di sicuro non è John Wick.
Comunque è un film divertente con il classico agente sotto copertura (Ryan Gosling) che deve proteggere la figlia del suo ex capo (Billy Bob Thornton) aiutato da un’agente che si ribella all’establishment (Ana De Armas) e osteggiato da un sadico Chris Evans coi baffetti.
Ci sono dei bei combattimenti e diverse spettacolari scene d’azione, ma a dire il vero verso la metà devo essermi addormentato e non ho tutta questa voglia di rivederlo, quindi boh, change my mind. #recensioniflash

DECISION TO LEAVE (Park Chan-Wook, 2022)

Cosa dire di Decision to Leave di Park Chan-Wook? Che per me è a sorpresa nella top five dei film dell’anno, visto in corner in questi ultimi giorni di dicembre in cui tradizionalmente scopro le migliori perle cinematografiche.
Una storia e una messa in scena decisamente hitchcockiana ma senza il citazionismo tipico di un De Palma, anzi con un piglio personale e una cifra stilistica molto netta e particolare: innumerevoli riprese di riflessi, specchi, vetrine, un gioco continuo di fuoco e fuori fuoco sui diversi piani, angolazioni assurde anche per un acrobata del cinema come Park (tipo: la soggettiva dall’occhio del morto o dall’occhio del pesce).
La storia è un classico noir rivisto in salsa coreana: l’integerrimo detective Hae-Jun, specializzato in casi irrisolti e in appostamenti notturni (soffre di insonnia) incappa nel caso di un morto caduto da una montagna. Ma è caduto, si è buttato o è stato spinto? Magari dalla moglie immigrata cinese, la bellissima e misteriosa Seo-Rae?
Da questa premessa si dipana un racconto che – è il caso di dirlo – è serpentino, nel senso che ti avvolge nelle sue spire fino a stritolarti sul finale. Seo-Rae è quello che dice di essere? E se in qualche misura è colpevole dell’omicidio del marito, Hae-Jun non si sta forse innamorando di lei? E non finirà comunque per proteggerla?
Un gioco di specchi (letteralmente e metaforicamente) che fa anche un uso intelligente delle nuove tecnologie e ha un finale di quelli che ti straziano. Bellissimo. #recensioniflash

MEN (Alex Garland, 2022)

Il penultimo film dell’anno è Men di Alex Garland, un horror A24 (per i quali sapete che io ho un importante innamoramento) che con qualche difficoltà riesce a stare in bilico tra l’horror efficace e il metaforone di grana grossa. Cioè, ogni tanto il metaforone diventa un po’ esagerato e banale, ma Garland ci fa una bella iniezione di body-folk-horror e lo rimette sulla retta via.
Men in sostanza è un film che mette in scena i rapporti di potere all’interno della società patriarcale approfittando della storia di una donna vittima di una relazione tossica che – dopo un fattaccio che non vi spoilero – va in vacanza due settimane in una meravigliosa casa nel countryside inglese.
Tutto è verdissimo, i fiori sono bellissimi, la natura è silenziosissima, la casa è arredata benissimo, il padrone di casa è cringissimo, ma a lei tutto questo potrebbe anche piacere, vale tutto pur di non pensare alla sua relazione tossica.
Il problema inizia ad emergere quando vediamo che: 1) c’è un tizio supercreepy che ama mostrarsi col cazzo di fuori dietro le finestre del cottage, 2) c’è un ragazzino con la faccia da vecchio che vuole giocare a nascondino e quando lei non ci sta la chiama stupida troia, 3) ci sono una serie di personaggi che incarnano i vari aspetti del patriarcato tutti interpretati dallo stesso attore (Rory Kinnear) che poi è anche l’interprete del padrone di casa stesso.
C’è molta tensione, c’è moltissimo paganesimo alla Wicker Man (gli inglesi sono molto bravi in questo), c’è un finale che è talmente spinto al massimo sul pedale del body horror che mi ha fatto pensare al capolavoro di Brian Yuzna, Society.
Alla fine un pochettino tutto è rovinato dalla consapevolezza che stai assistendo a un metaforone visivo di grana molto grossa (i mostri partoriti dal patriarcato), ma evidentemente serve anche questo. Credo di aver scritto almeno tre volte la parola “patriarcato”, quindi a posto così. #recensioniflash

BELLE (Mamoru Hosoda, 2022)

Belle di Mamoru Hosoda è sicuramente per me l’anime dell’anno. Intanto è una rilettura molto particolare della fiaba La Bella e la Bestia ambientata ai giorni nostri in un metaverso che potrebbe essere una evoluzione più spinta dell’attuale Fortnite, per dire.
Belle è una cantante famosissima nel metaverso che incontra in quello stesso ambiente la Bestia, un personaggio altrettanto famoso ma temuto per le sue azioni di disturbo. In un ambiente caleidoscopico pieno di follower e hater, costantemente affollato di tab, commenti, messaggi vocali e testuali, video feed e avatar di vario genere, Belle cerca di rintracciare la Bestia per capire chi lui sia veramente nel mondo reale.
Il “mondo reale” di Belle è un paesino del sud del giappone in cui Suzu, liceale triste e orfana di madre, riesce a liberare la sua vera voce solo entrando nel metaverso con il personaggio di Belle (ovviamente a scuola è quasi completamente ignorata).
Ne consegue una sorta di forsennata indagine fuori e dentro il metaverso per scoprire la vera identità della Bestia, che Suzu stanerà solo mostrandosi per quello che è e non nei panni della idol Belle.
Il tema del film è ovviamente quello della fama on line, del rapporto con hardcore fans e haters, della maschera che amiamo indossare per sentirci più protetti e dei pericoli (ma anche delle opportunità) di una vita in cui on line e off line sono strettamente intrecciati.
Lo stile visivo di Mamoru Hosoda è qui al suo top, ed è interessante vedere come – più ancora che in Mirai – le nuove tecnologie e i linguaggi del gaming entrino direttamente nella costruzione delle inquadrature del film. Per chi apprezza, poi, ci sono molte canzoni J-Pop (io però l’ho visto in inglese quindi non saprei). #recensioniflash