HEROBEAR AND THE KID

HEROBEAR AND THE KIDRispetto ai giganti dell’animazione odierna come Brad Bird, Chris Sanders o Glen Keane (per citarne tre pescati nel mazzo della grande tradizione disneyana), Mike Kunkel è sicuramente meno conosciuto. Ha lavorato un po’ su Hercules e Tarzan – non proprio tra i film Disney più memorabili – e poi si è buttato sulle serie televisive come La principessa Sofia o Kick Buttowski (tragicamente tradotto in italiano Kick Chiapposky, quando è evidente che avrebbe dovuto al limite chiamarsi Spacco Culowski, ma va beh). Ma Kunkel è un animatore double face: basta vedere (fazzoletti alla mano) il corto La piccola fiammiferaia per capirlo (storia strana: outtake di un ipotetico terzo seguito di Fantasia, il corto è poi finito dentro una delle edizioni deluxe/platinum/chic/superexpensive di La Sirenetta).

Inquadrato il personaggio, parliamo del fumetto. Bao Publishing (sempre sia lodata) ha fatto uscire qualche mese fa nella collana per i più piccoli BaBao il primo volume delle storie di Herobear and the Kid, il fumetto con cui Kunkel si è fatto strada nel mondo del fumetto e ha vinto ben due Eisner Awards (2002 e 2003, miglior titolo per ragazzi). Non è una lettura da lasciarsi sfuggire, soprattutto dal momento che arriva con così tanto ritardo in Italia.

Kunkel ha un tratto disneyano e si vede: costruisce tutte le sue tavole con giustapposizioni molto dinamiche di vignette, spesso lasciando che i personaggi in primo piano cambino espressione in sequenza. Questo è uno degli indizi dell’approccio più vicino allo storyboard che al fumetto tradizionale adottato da Kunkel. L’altro è il vezzo di non “pulire” le matite e lasciare che i tratteggi restino in bella vista sulla pagina, addirittura sotto forma di schizzi preparatori non inchiostrati e trattati con acquerelli a toni di grigio. Una scelta discutibile, forse un po’ fastidiosa per chi è abituato al fumetto classico. Sa di non finito, ma dopo poche pagine è chiaro che si tratta di una scelta stilistica che ha l’intento di portarci in una dimensione tra la fantasia e la nostalgia per l’infanzia.

Il protagonista è Tyler, un bambino che ha appena vissuto il funerale del nonno, un trasloco e il trasferimento in una nuova scuola. In tutto ciò, il nonno gli ha lasciato in eredità solo una bussola e un orsacchiotto di pezza. Ben presto però Tyler scopre che schiacciando il naso all’orsacchiotto, questo diventa un invincibile ed enorme orso polare dotato di mantello rosso (il mantello di Herobear è l’unico elemento colorato del fumetto). Tra fantasia infantile e parodia narrativa e visiva del mondo dei supereroi, Herobear procede con scene d’azione molto dinamiche e lunghe introduzioni introspettive del protagonista: un bambino che racchiude in sé le domande di un adulto che riflette sulla propria infanzia.

Tutto il mondo di Herobear ruota sul concetto di fede, intesa come “credere” a qualcosa di impossibile. Non a caso il colpo di scena finale (non difficile da intuire già verso la metà della storia) è di quelli eclatanti: forse un po’ frustrante per un lettore adulto, ma ehi… stiamo parlando di sospendere l’incredulità ed entrare in un modo di fantasia. Tyler non è Calvin, e Herobear non è Hobbes. Per quanto molte delle dinamiche siano simili, le avventure della coppia titolare non sono frutto dell’immaginazione del bambino. Herobear esiste, viene visto anche dagli adulti, ed è stato creato da… No, vabbè. Non vi rovino la sorpresa. Per me vale l’acquisto ed è una delle letture migliori dell’anno. Vorrei averlo conosciuto prima.

In ogni caso, ripensandoci, ma chi può essere così fottutamente sadico da fare un corto animato sulla piccola fiammiferaia?
Poi ti domandi perché l’hanno scartato nel montaggio finale.
Sono traumi.