SCUOLE DI ORDINARIA FOLLIA

L’altro giorno mi è capitato di vedere nella sezione “ricordi” di Facebook un post di gennaio 2017 riguardante la maestra della scuola materna di mio figlio. Un post di poco più di due anni fa, che allora probabilmente mi era sembrato innocuo, ma che oggi mi ha dato la misura di quanto cazzo di tempo abbiamo passato in una situazione pesante e difficile da gestire riguardante la Creatura e tutta la famiglia. E ora che il peggio sembra passato, mi è venuta voglia di ripercorrere le tappe che ci hanno portato fino qui.

Intendiamoci, ci sono problemi peggiori nella vita. Ma a me sinceramente il sistematico abbattimento dell’autostima di un bambino di neanche quattro anni (ora cinque e qualcosa) e la generalizzata incapacità di ascoltarlo e capirlo ha fatto travasare la bile per due anni, appunto.

Faccio solo alcune doverose premesse.

Premessa 1: mio figlio è un bambino impegnativo, non posso negarlo. Testardo, determinato, bastian contrari (come si dice qua in Sabaudiland di una persona che per partito preso se tu dici bianco deve dire nero), con i suoi bei problemi a gestire le emozioni, specialmente quelle negative come rabbia, paura, tristezza. Un bambino generoso ma anche arrogante, affettuoso ma anche asfissiante, empatico ma anche egocentrico: una contraddizione vivente irrisolta come credo il 95% dei bambini che esistono al mondo (e di molti adulti, vorrei dire). Con la sua proprietà di linguaggio al di sopra della media ti fotte perché parla e argomenta come un adulto, sa trovare i tuoi punti deboli e scardinare qualsiasi tipo di autorevolezza tu ti illuda di costruirti. In più, ha una predilezione per risolvere i conflitti sul nascere. A mazzate.

Premessa 2: in tutto quello che vi racconterò non c’è una critica per partito preso delle istituzioni scolastiche, né dell’ordine degli psicologi, né di tutto quanto è stato messo in moto per aiutare mio figlio nel tempo. Né io né mia moglie siamo quel tipo di genitori per cui “tu maestra il mio bambino non me lo devi criticare” o “i bambini ritardati vanno dagli psicologi, il mio no”. Se vogliamo, anzi, c’è molta autocritica come genitore (il mestiere più fottutamente difficile al mondo per il quale nessuno ti fa formazione). Diciamo però che quando l’autocritica diventa un continuo tirarsi le martellate sui coglioni, allora ecco, anche basta.

Premessa 3: solo perché lo sappiate, siamo una famiglia nucleare torinese di padre, madre e figlio unico. Lo abbiamo avuto tardi, a quaranta anni passati, dopo diversi tentativi “andati a vuoto”. E mentre i nostri coetanei hanno figli adolescenti o quasi, noi siamo alle prese con una Creatura in fase preschool. Entrambi (fortunatamente) lavoriamo e le nostre famiglie di origine sono lontane: nonni da sfruttare come welfare familiare all’orizzonte non ce ne sono e per sopravvivere ci serviamo di due o tre babysitter a rotazione che il bambino conosce molto bene (se mi leggete, anzi, un saluto e un ringraziamento di cuore). Però, come immaginerete, dipendiamo da loro esattamente come mia madre ottantunenne dipende dalla sua badante.

E ora partiamo pure, ma andiamo con ordine.
Anno scolastico 2016-2017.

Mio figlio inizia la scuola materna, grande emozione, soprattutto per il primo impatto con quelle cose tipo “scegli le tre scuole dove vuoi che vada e poi spera in dio”. Noi abitiamo praticamente al piano di sopra della scuola materna principale del quartiere. Ma niente da fare, lui viene assegnato alla succursale più lontana. Non è un problema, ce ne facciamo subito una ragione. Viene assegnato alla sezione Arcobaleno e comincia l’inserimento. In questa sezione c’è una maestra che sulle prime trovo difficile da definire (“vecchio stampo”?, “affabile ma legnosa”?) e che oggi definisco, semplicemente, “stronza”.

Le giornate si susseguono tutte uguali, con noi genitori relativamente ignari di quello che succede a scuola (la Creatura non è mai stata di molte parole, almeno fino a queste ultime settimane). Gli unici segnali un po’ inquietanti arrivano dopo il Natale 2016, periodo in cui la Stronza comincia ad insistere maggiormente con battute apparentemente senza senso, dette alla nuora perché suocera intenda, del tipo “Hai visto? Oggi viene a prenderti la mamma, che evento” o “Ma quante baby sitter che hai, scommetto che vedi ogni giorno una persona diversa”. Ecco. Iniziamo a instillare nel bambino l’idea che la mamma o il papà non abbiano tempo per lui e che il fatto che un genitore vada a prenderlo rappresenti un evento da sottolineare.

Forse molti di voi conoscono il detto “torinese, falso e cortese“. La Stronza, soprattutto nel primo anno di scuola materna, lo rappresentava perfettamente. Sempre con un sorriso stampato in faccia, accoglieva il genitore alle quattro del pomeriggio con considerazioni passivo aggressive da manuale. E sempre davanti al bambino. I sottotesti potevano essere “i tuoi genitori non ti curano abbastanza” o l’altro grande classico “tu sei un bambino sbagliato”. Il maggior compiacimento e – vorrei dire – l’acme del suo lavoro di educatrice, infatti, veniva raggiunto al momento del “report” ai genitori di come era andata la giornata. Nel caso di mio figlio, sempre malissimo.

Tipo: non ha voluto partecipare alla tale attività di gruppo; tutti fanno una cosa e lui ne fa un’altra; gli prendono i giocattoli e lui si arrabbia e picchia o graffia gli altri bambini; non ascolta quando viene ripreso e via dicendo. Qui entra in gioco l’autocritica retrospettiva. Probabilmente in quella primavera del 2017, sia io che mia moglie eravamo in fase di apprendimento di cosa voleva dire avere un bambino che aveva sviluppato da poco una sua (forte) personalità. La famiglia si stava riconfigurando, non avevamo più un dolce fagottino che dove lo mettevi stava, non parlava e tutto sommato si muoveva poco. Avevamo Attila, il flagello di dio. Ma eravamo convinti che fosse anche normale. Soprattutto, eravamo (lo siamo ancora) convinti che il lavoro di un educatore non andasse sminuito per partito preso, come fanno molti genitori che vediamo quotidianamente e che noi non volevamo assolutamente imitare. Non volevamo essere i genitori che per tenere il figlio nella bambagia gli evitavano ogni critica. Perciò, ad ogni report negativo seguivano ulteriori incazzature e tensioni anche a casa.

Per capire meglio dove stavamo andando a parare e quanto stava collassando il benessere psicologico del bambino, facciamo un salto in avanti.
Anno scolastico 2017-2018.

Complice la proverbiale morìa dei maestri, per diversi mesi la sezione Arcobaleno (formata da 24 bimbi dai tre ai cinque anni) rimane dominio assoluto di una sola educatrice: la Stronza. Questo fatto – un rapporto 1 a 24 tra educatori e bambini – non lo augurerei al mio peggior nemico, ma tant’è, la scuola è messa in questo modo, occorre fare buon viso a cattivo gioco.

Sempre più o meno intorno a Natale, arrivano le prime avvisaglie. Mio figlio non è più solo un bambino problematico perché non si uniforma all’idea platonica di bambino che alberga nella testa della maestra, ma diventa un bambino problematico perché picchia gli altri. Mio figlio un bullo? Nella mia mente di genitore pacifista si addensano nubi fosche e incomprensibili. Nel frattempo, va detto, stavo facendo un percorso di terapia per via di una grossa crisi personale relativa allo stato di salute mentale di mia madre. Inutile dire che anche nelle mie sedute settimanali, mio figlio ha cominciato a prendere il sopravvento come “problema da gestire”.

Ma non si trattava di bullismo. L’ho detto più sopra, mio figlio come la maggior parte dei bambini ha qualche problema nella gestione della rabbia. Se gli dài fastidio, mena. E qui sta il nodo principale della faccenda. Dopo la solita sequela di critiche distruttive sempre fatte di fronte al bambino (“Oggi ha picchiato Tizio, ha graffiato Caio, ha spintonato Sempronio, è stato in castigo tutto il pomeriggio, ha fatto talmente tanto casino che volevo rimandarvelo a casa”) la Stronza cala l’asso: “Questo bambino ha dei problemi evidenti, dovete farlo vedere da un neuropsichiatra infantile”.

Problemi evidenti. Neuropsichiatra infantile. Prendetevi il tempo di far affondare queste considerazioni dentro di voi, immaginatevi di essere i genitori del “bambino sbagliato”. Bene. Questa conclusione diagnostica cui la Stronza è giunta, è frutto anche di un incontro tra i genitori (cioè noi), lei e il nuovo maestro che nel frattempo è arrivato, che stronzo certamente non è ma che chiameremo “Ignavo”, totalmente succube della Stronza. L’Ignavo e la Stronza, durante questo colloquio teso a “capire il contesto in cui è inserito il bambino” ci fanno una serie di domande stile inquisitore del tipo “Che traumi ha avuto il bambino da piccolo”, “L’avete abbandonato per lunghi periodi”, “Quando siete a casa gli parlate o interagite con lui”,  e simili. Domande, nota bene, senza punto interrogativo. Domande che in realtà sono malcelate affermazioni – o meglio insinuazioni – sulla nostra vita familiare, che evidentemente loro immaginano a tinte fosche stile romanzo di Dickens.

Ora, mio figlio è figlio unico, ma è andato al nido da quando aveva un anno. Gli parliamo normalmente (pure troppo, credo), giochiamo con lui ogni volta che i tempi ce lo permettono, siamo una famiglia normale come tante, senza particolari traumi e scossoni, e siamo noi tre, sempre noi tre. Impossibile non esserci sempre l’uno per gli altri due.

Ma va bene, ci diciamo, probabilmente nelle scuole così si fa. Probabilmente è normale che una Stronza faccia le sue diagnosi in questo modo. In effetti no, non penso sia normale, e non lo pensavo nemmeno allora. Ma mi rendevo conto che un qualche problema c’era, e quindi io e mia moglie ci siamo affrettati a chiedere un aiuto professionale. Iniziamo quindi un percorso con una psicologa dell’età evolutiva che conosciamo perché – per un caso fortuito – aveva visto il bambino quando aveva due anni in un periodo in cui faceva consulenze integrate nel nido.

La psicologa lo accoglie nel suo studio dove – a quanto ne so – adotta un approccio di tipo kleiniano osservandolo durante le attività di gioco simbolico. Tempo un paio di mesi e – mentre a scuola aumenta il malcontento di maestri, compagni e genitori dei compagni che iniziano ad indagare su chi sia “questo bambino di quattro anni che picchia tutti” – arriva una prima, fumosa considerazione professionale. Il bambino ha uno sviluppo cognitivo sopra la media al quale non corrisponde un adeguato sviluppo emotivo. Per me questa frase è da premio GAC 2018. Bene, OK, ha l’intelligenza di un bimbo di otto anni e lo sviluppo emotivo di uno di due. A-ha. E quindi?

E quindi c’è un colpo di scena. Alla festa di fine anno la Stronza fa il suo grande annuncio: abbandona questa scuola materna e si trasferisce in un nido più vicino a casa sua, dove potrà rovinare i bambini a un’età più tenera. A partire dall’estate del 2018, infatti, a seguito di due anni di esposizione alla relazione tossica con la Stronza, mio figlio ha pienamente interiorizzato che lui “è cattivo”, che “è sbagliato”, che “non sa fare nulla”, che “ha la testa vuota”. Tutte espressioni che immagino benissimo gli siano state ripetute a scuola ogni giorno. Inutile dire che io e mia moglie all’annuncio che la Stronza se ne andava abbiamo stappato una bottiglia di spumante. Stavamo parlando di cambiare scuola al bambino ora che – con colpevole ritardo – avevamo capito che tipo di ambiente c’era in classe, ma via lei forse le cose sarebbero cambiate.

Avremmo dovuto cambiare scuola senza pensarci due volte. E invece siamo rimasti e le cose se possibile sono ulteriormente peggiorate.
Anno scolastico 2018-2019.

La maestra nuova che è arrivata in sostituzione della Stronza è giovane, propositiva, entusiasta, sprizza pedagogia alternativa da tutti i pori e tutti i genitori, noi compresi, sentiamo aria di cambiamento. L’Ignavo la accoglie come una boccata d’aria fresca, e insieme mettono in atto una piccola rivoluzione cambiando l’arredamento della sezione, inventandosi un nuovo “programma”, fissando attività di vario genere e in definitiva cercando in ogni modo di rompere con il passato e con la Grande Tradizione Pedagogica che a quanto pare la Stronza seguiva.

Insomma, quello non è il mio mestiere, quindi va bene, rivoluziona quello che devi rivoluzionare, l’importante è che i bambini stiano bene. Così pare, e anche se a noi il sorriso della nuova maestra sembra un po’ finto, ci facciamo contagiare dall’entusiasmo generale e pensiamo “Ma sì, cambierà tutto per il meglio”. Col cazzo. Punto primo: la maestra nuova, proclami pedagogici a parte, è evidentemente un personaggio più interessato a una carriera interna nel sistema scolastico torinese che a trasmettere cose ai bambini. In assenza di altri insulti adatti e non volendo scadere nell’insulto sessista, la chiameremo “Stronza 2.0”. Punto secondo: la “problematicità” di mio figlio aumenta in modo esponenziale nell’autunno del 2018.

Perché “Stronza 2.0”? Facile: dopo un primo mese di rodaggio le modalità di rapporto con noi genitori sono esattamente le stesse. Passiamo da “Nella mia classe non ci sono bambini buoni e bambini cattivi” a “Il bambino ha picchiato Tizio, ha graffiato Caio, ha spintonato Sempronio” in un amen. L’approccio è forse un filo più soft, cerca di dirti “Dài mamma/papà, io attuo queste strategie, attuatele anche voi a casa” ma intanto ogni cazzo di giorno che dio manda in terra c’è il bollettino dei feriti. E sempre, invariabilmente, davanti al bambino, che durante queste interminabili sedute in cui la Stronza 2.0 (o l’Ignavo, quando c’è lui) srotola il quaderno delle lagnanze a mamma o papà, sta lì, silenzioso, guardando per terra. Convinto di essere una merda. Convinto di non meritarsi altro nella vita che critiche, castighi, sgridate.

E perché la “problematicità” aumenta? Buona domanda. Difficile a dirsi. Io penso questo: siamo stati ingenui a pensare che un cambio di insegnante potesse fare la differenza. Il contesto era rimasto lo stesso. I bambini di cinque anni, gli amici che mio figlio frequentava ormai da più di due anni, avevano interiorizzato grazie alla Stronza che mio figlio era il “bambino cattivo” e come tale lo trattavano. I genitori dei compagni di classe nei casi migliori ci supportavano, ma nella maggioranza dei casi (specialmente i genitori dei bambini più piccoli che non conoscevamo) facevano pressioni sui maestri per scoprire chi fosse il “bambino violento” e chiedevano provvedimenti.

Sì. A questo punto mio figlio era il “bambino violento”, di una violenza pericolosa per sé e per gli altri. Partono una serie di colloqui in cui in buona sostanza mio figlio viene dipinto come uno psicopatico, un bambino tranquillissimo che di punto in bianco, senza alcuna motivazione, si alza e va a picchiare un altro bambino, oppure apre le finestre e tenta di buttarsi di sotto, oppure – tipo Hulk – lancia in aria le seggioline di ferro e i banchi, opppure distrugge i lavori suoi e degli altri bambini. Insomma, sempre di più un ritratto in cui noi genitori non lo riconoscevamo. Viene coinvolto anche il direttore didattico, e mio figlio diventa ufficialmente “il caso”.

Trovo necessario fare una piccola digressione sul concetto di “senza alcuna motivazione”. Mio figlio può essere molto irragionevole, e dio sa se non ha la capacità di farti andare ai matti, ma non fa mai nulla senza motivo. E il motivo è sempre lo stesso, lo estorciamo con le tenaglie a lui ma ce lo confermano anche alcuni suoi compagni: viene costantemente stuzzicato e infastidito, finché non reagisce. Immaginatevi un bambino a cui dei genitori disperati e sull’orlo del crollo nervoso ripetono ogni sera e ogni mattina “Ti prego, ti prego, non picchiare nessuno, picchiare non è una soluzione, se c’è qualcosa che non va devi dirlo ai maestri”. Questo bambino, voglio credere, è tutto intento a cercare di autocontrollarsi, ed è DIFFICILE. A casa, quello che mi risponde quando tento di parlarne è “Papà, io quando mi arrabbio è come se mi si spegnesse il cervello“, per dire. I suoi compagni sanno che dentro di lui si nasconde una sorta di Mr. Hyde, e per divertirsi (perché i bambini fanno così, è normalissimo) lo stuzzicano fino a farlo andar fuori. Esempio pratico: dopo cinque pizzicotti ricevuti, lui reagisce con un graffio degno di Freddy Kruger. Ma quei cinque pizzicotti – che i maestri guarda caso non vedono mai – esistono: il problema è semmai una reazione un po’ troppo esagerata.

Torniamo a bomba. Da un lato abbiamo Stronza 2.0, terrorizzata dalla possibilità di una denuncia da parte della lobby dei genitori incazzati e quindi di una macchia sulla sua carriera di educatrice rivoluzionaria, che sostiene che “evidentemente una terapia psicologica non è sufficiente”. Dall’altro abbiamo la psicologa che si fa venire la grande idea del millennio. Mio figlio deve uscire tutti i giorni alle 13. La riduzione del suo tempo scuola avrebbe il triplice vantaggio di alleviare la sua ansia di stare in un ambiente a lui ostile, disabituare i compagni alla presenza di un bambino violento e stimolando quindi una maggior voglia di giocare con lui, diminuire per forza di cose gli episodi di violenza in classe (continuo a parlare di “violenza” perché questa è sempre stata la parola usata dalla Scuola, io non riconosco mio figlio in questa definizione).

L’idea che meno tempo a scuola possa far stare tutti più rilassati vince il premio GAC 2018 a mani basse superando anche l’osservazione relativa alle difficoltà nello sviluppo emotivo. OVVIAMENTE il bambino era contento. OVVIAMENTE i compagni chiedevano di lui e si domandavano perché non ci fosse mai al pomeriggio. Non così OVVIAMENTE al mattino lui comunque attuava costantemente la sua politica di farsi giustizia da sé. Solo che non lo sapevamo, dato che per più di un mese abbiamo dovuto pagare qualcuno che andasse a prendere il bambino all’ora di pranzo e se lo tenesse fino a che la mamma o il papà non tornavano a casa, e sia la Stronza 2.0 sia l’Ignavo si guardavano bene dal dire qualcosa a una babysitter.

Quindi: noi a lavoro, il bambino a scuola fino alle 13 poi in mano a una babysitter per almeno tre ore al giorno, e visto l’acuirsi degli “episodi di violenza” anche un raddoppio delle sedute di terapia, che passano da una a due volte la settimana. La psicologa parla genericamente di rabbia dovuta a vissuti traumatici di continua frustrazione, dipinge un bambino non ascoltato e sempre “soffocato” anche dai genitori (nota: lo ammetto, spesso ci vediamo costretti a dirgli “stai bravo, stai fermo, non fare cazzate”, ma è anche il risultato di una serie di rimandi scolastici per cui lui era il bambino ingestibile da sedare) e soprattutto parla di una serie di mostri che popolano la sua fantasia che altro non sono che queste emozioni negative che lui non riesce a gestire. Il riscontro in famiglia c’è: da ottobre 2018 mio figlio sviluppa un terrore dei “mostri” che non ha mai avuto prima. Le luci vanno tenute accese in tutta la casa perché ci sono i mostri, in quella stanza da soli non si va perché ci sono i mostri, trema come una foglia tutte le sere prima di dormire e non c’è santo che tenga perché alla fine alla domanda su “dove sono questi mostri” lui ti risponde come in un manuale di psicologia “Sono qui, nella mia testa“.

Nel frattempo, maestri, direttore didattico, psicologa e collega pedagogista si vedono rigorosamente a porte chiuse (cioè: senza noi genitori) per parlare del caso e per offrire a questi poveri educatori che ormai “non sanno più che cosa fare con questo bambino” qualche strumento per poterlo gestire meglio. La cosa ci fa tanto più incazzare in quanto abbiamo l’impressione di essere due coglioni che in pratica finanziano una formazione ad hoc per Stronza 2.0 e Ignavo, che nel frattempo preparano una recita di Natale che definire “recita” è francamente impossibile. Si tratta di un momento autocelebrativo, una proiezione di slide in cui i due educatori mostrano con una serie di foto in dissolvenza quello che hanno fatto con i bambini nell’ultimo trimestre. E lì, in occasione della “recita”, noi abbiamo l’illuminazione, vedendo tutti i bambini insieme. Mio figlio paradossalmente è lì seduto tranquillo, mentre il caos a cui assistiamo arriverebbe a livello bambini che si dondolano sui lampadari, se ci fossero i lampadari. E del resto prova tu a far stare seduti zitti 24 bambini mentre proietti delle slide che avrebbero annoiato anche i sassi.

Non è che i maestri non sappiano come trattare mio figlio perché lui è uno psicopatico impossibile da gestire. È proprio che non hanno la minima autorevolezza con nessuno dei bambini della classe. Non vengono riconosciuti come adulti di riferimento.

Arriva gennaio 2019. Ormai siamo determinati a cambiare scuola, l’ambiente era troppo tossico. La psicologa dice che è un rischio troppo alto, che c’è già il cambiamento delle elementari in vista, che è molto meglio continuare a farlo andare a scuola solo mezza giornata. Io dico che proprio per una preparazione alle elementari, sarebbe opportuno che il bambino facesse esperienza delle giornate di scuola piene, in cui abituarsi ad attività che poi avrebbe ripreso meglio alle elementari. La psicologa dice che tanto i problemi del bambino permangono, e che se continua così alle elementari avrà bisogno di un insegnante di sostegno, e che sicuramente non potrà affrontare un tempo pieno. Io dico che come famiglia possiamo permetterci solo il tempo pieno, che non abbiamo una tata filippina in casa a disposizione come forse lei si immagina (e, nota bene, si immaginava proprio questo). La psicologa dice che se possiamo pagare la retta di una scuola paritaria dove trasferirlo di botto a metà anno allora possiamo pagare anche una baby sitter tutti i giorni, e comunque, “se fosse figlio mio lo farei stare a scuola meno possibile”. Io dico che può andare elegantemente a fare in culo.

Al ritorno dalle vacanze di Natale, Simone è già in una scuola nuova. Lo ammetto, ci vergogniamo di come abbiamo gestito la cosa per fargliela andar giù: “Papà e mamma hanno avuto un cambiamento sul lavoro, dobbiamo passare da questa strada qua e quindi adesso vai in questa scuola qua”… Patetici. Però è un fatto che dopo soli due giorni in questa nuova scuola mio figlio sia rinato. Più sereno, più allegro (forse perché anche noi siamo meno cupi e meno tesi), di punto in bianco racconta quello che fa a scuola, le storie che sente, i disegni che fa, le canzoni che impara, e chiacchiera, chiacchiera tantissimo. Fino al mese scorso era “Cosa hai fatto a scuola?” – “Non lo so. Non mi ricordo”. La maestra nuova (una maestra sola! con 24 bambini! che però la ascoltano e la riconoscono come adulto di riferimento!) è un tipo completamente diverso, ci ascolta, ascolta il bambino. Questa cosa così piccola, così scontata, per noi è grandissima. Ogni volta che mettiamo piede in questa scuola ci vengono le lacrime agli occhi dalla commozione. L’accoglienza è completamente diversa, la riconsegna del bambino anche (non è che di punto in bianco abbia smesso di essere manesco, ma questi episodi non vengono mai sottolineati di fronte a lui e comunque minimizzati come “cose che capitano a tutti” e che “si possono risolvere” con noi). Parlando con lui senza forzarlo, gli abbiamo fatto capire che non è stata solo una questione logistica legata al nostro lavoro, ma che ci sembrava che nella scuola vecchia lui non si trovasse poi così bene. Ci ha risposto che “nella scuola vecchia ero sempre solo triste e arrabbiato, mentre nella nuova scuola sono allegro”. Solo l’altro giorno ci ha detto: “Grazie di avermi mandato nella scuola nuova“.
E noi giù lacrime.

Tra l’altro, in questi giorni abbiamo sfanculato anche la psicologa con la quale – almeno noi genitori – non vedevamo più possibile alcun tipo di rapporto e abbiamo avviato invece un ciclo di psicomotricità che in molti ci hanno consigliato per l’efficacia nel risolvere problemi relazionali o di gestione delle emozioni nei bambini. Nel contempo, ci siamo presi la briga di fare un colloquio individuale con la dirigente della scuola elementare dove il bambino andrà, per confrontarci su una serie di temi come la formazione delle classi, la gestione del difficile passaggio alle classi prime, il tipo di formazione che hanno gli educatori, le modalità di lavoro che hanno. Ho trovato una persona splendida anche in questo caso, accogliente e stimolante, con la quale spero di avere un ottimo rapporto in futuro. Ha ascoltato la storia di mio figlio e mi ha detto sorridendo che “è la storia di moltissimi bambini” e che ci sono due maestri in particolare ai quali affiderebbe il bambino (gli stessi maestri che avevo conosciuto e apprezzato a un paio di Open Day scolastici, pensa un po’).

Mi rendo conto ora di aver scritto un post molto più lungo della mia solita media. Pensate solo che ho detto la metà delle cose che mi girano nella testa, nel cuore e nella pancia da così tanto tempo. Abbiamo avuto tutti, soprattutto mio figlio, un peso enorme sulle spalle.
Adesso respiriamo, dopo due anni e mezzo di apnea.
E siamo una famiglia più felice.

 

FLICKR, LA FINE DI UN’ERA

Ci siamo.
Dopo più di un anno che se ne parla, la società che ha comprato Flickr ha preso la sua decisione. Gli utenti Free non avranno più un TB di spazio a disposizione, ma solo un numero fisso di 1.000 foto. Io sono un utente Pro da dieci anni. Proprio quest’anno, per motivi di risparmio e scarso utilizzo della piattaforma avevo deciso di tornare al piano Free (fino all’anno scorso lo potevi fare mantenendo tutto l’archivio esistente del Pro, ma rinunciando alle funzionalità aggiuntive). A Natale arriva l’avviso: se non paghi la quota Pro (che nel frattempo è significativamente aumentata) sei fuori e ti forziamo l’account Free cancellandoti tutte le foto in eccesso rispetto alle 1.000 consentite.

Bene, questi i fatti. Io ho circa 7.500 foto in archivio.
In questo momento sto passando il tempo a scaricare uno ad uno i 100 album nei quali avevo organizzato praticamente tutti i miei ricordi, i viaggi, le vacanze, i cortei e le manifestazioni, i barcamp, i webdays, le foto di architettura (che da ossessivo compulsivo io dividevo in periodi storici tipo rinascimento, barocco, neoclassico, eclettismo, art nouveau, razionalismo, art deco e via dicendo), i ritratti degli amici, di animali, piante, oggetti, luci, acqua, nuvole, insetti, macro, tutte le foto dedicate alla mia amata Torino, quelle con cui avevo vinto premi, quelle che ero riuscito a vendere a Getty Images, tutto.

Ora, evidentemente questo è un non-problema, nel senso che esistono certamente molti altri repository dove io possa archiviare le foto che desidero. E – detto tra noi – uno spazio come Flickr forse ha fatto il suo tempo: oggi on line le foto si “consumano” in un altro modo, c’è Instagram se proprio si vuole, che però è tutta un’altra cosa, è fatto per il consumo veloce e il like distratto, soprattutto non è fatto per l’archivio ma è fatto per l’effimero.

Però… c’è un però. Flickr, nel lontanissimo 2004, è stato il primo social media che ho “adottato”, e in un certo senso anche il primo alfiere del cosiddetto web 2.0 che ha fatto breccia nei PC e nei Mac di migliaia di utenti. Certo, LinkedIn è nato un annetto prima (ma chi se lo inculava?) e così MySpace, anche se cerchiamo tutti di dimenticarcelo; Flickr però aveva una marcia in più, ci caricavi le foto e interagivi con una community di fotografi eroici che cominciavano in modo massiccio ad alimentare quello che presto divenne noto come User Generated Content (UGC).

Oggi tutti noi che lavoriamo nel web sappiamo che il magnifico “sol dell’avvenire” del web 2.0, dello UGC, del read-write-web e quant’altro è finito per tramontare in un mare di fango e letame e tutti quanti, se potessimo, prenderemmo la macchina del tempo per tornare a un mondo pre-2003 e cercare in qualche modo di cambiare le cose. Sappiamo benissimo che non sono gli strumenti (i social media) ad essere cattivi, ma le persone che li utilizzano. Eppure…

Eppure Flickr, anche in questa sua attuale (e più che legittima) deriva verso il “paga o schiatta”, resta un’oasi incontaminata da flame, troll e minchiate varie. Su Flickr ci ho conosciuto tante persone che ancora oggi considero amici anche se non ci vediamo fisicamente mai, grazie a Flickr ho partecipato a raduni IRL (In Real Life), ho frequentato un gruppo di fotografi torinesi (il famoso DIECICENTO, con il quale abbiamo fatto anche mostre fotografiche), ho guadagnato qualche soldo (pochi) vendendo foto o dandole in licenza, ho portato la mia esperienza a qualche barcamp (il solo dire la parola “barcamp” mi fa sentire un grato odore come di lavanda e naftalina).

E niente, passerò l’ultimo dell’anno a scaricare file ZIP di archivi fotografici e vagherò ramingo nel web per cercare un’altra casa per le mie foto. Non cancello l’account per una questione affettiva, perché è stato l’inizio di una svolta anche professionale per la mia vita.
Però è definitivamente la fine di un’era.

 

LA GRANDE TRUFFA DEL NATALE

C’è questa cosa, che tutti i miei amici sanno e sulla quale scherzano: io detesto il Natale. Comincio a stare a disagio a novembre, quando in città piazzano le luminarie, e mi passa il 7 gennaio, quando si torna a lavorare. Persino mio figlio a cinque anni sa che “è meglio non mettere le canzoni di Natale perché poi papà sta male”.

Un po’ è un inside joke della nostra famiglia e del gruppo di amici, un po’ è qualcosa di vero. Veramente io con l’avvicinarsi del Natale cado in uno stato di negatività, angoscia e depressione tale che devo solo passare i giorni a ringraziare le persone che mi amano per continuare a farlo passando sopra questo inesplicabile fenomeno. La cosa è tanto più curiosa in quanto non ricordo esattamente da quanto tempo io mi sento così a Natale. Sicuramente c’entra qualcosa anche il mio compleanno, che cade il giorno precedente, e che superati i 40 tende a diventare più simile a una visione di sabbia che si esaurisce nella clessidra che non a una tappa da celebrare.

Da piccolo il Natale era già qualcosa di ambiguo. La festa – la mia festa – veniva in qualche modo usurpata dalla festa di Gesù. Non ho mai veramente festeggiato un compleanno con i miei amici, che quella sera erano tutti impegnati in baldorie familiari o in messe di mezzanotte. E non è che io ricevessi “un regalo solo” per Natale e compleanno, è proprio che la mia festa individuale si scioglieva in un rito collettivo, e io coltivavo già allora una sorta di rancore verso questo bambino circondato da animali, stelle, pastori e magi che mi privava dell’attenzione che io e solo io avrei meritato in quel giorno.

In più, tolti gli amici e la spensieratezza dall’equazione, il Natale diventava esclusivamente una questione familiare, con gli stessi riti, le stesse parole, gli stessi cibi, le stesse persone, anno dopo anno, dall’infanzia all’adolescenza, fino all’età adulta. I riti, una cosa che ho sempre mal sopportato. Eppure mi rendo conto che devono essere presenti nella vita di una persona se non altro per potersi autodefinire in contrapposizione ad essi. All’università sono riuscito a fatica ad affrancarmi dalla famiglia, facevo un po’ la fame ma vivevo libero. Tornavo a Natale, certo, ma forte di una vita che era la mia, non più la loro. Il tempo di una cena, ed ero già altrove. Potevo decidere di sottomettermi al rito per l’affetto che mi legava ai miei genitori, o – più avanti – ai genitori della mia compagna e successivamente moglie.

Poi, certo, nel 2006 c’è stato il primo Natale senza mio padre. E nel 2013 il primo Natale con una nuova persona, mio figlio. Questi due eventi cruciali, attorno ai quali ho girato molto intorno anche in mesi di terapia, sono andati in qualche modo a disturbare quel bambino triste e rancoroso che odiava Gesù e il Natale. Quel bambino vuole attenzione e vuole rassicurazioni, e per quanto abbia l’apprezzabile tendenza a spuntar fuori raramente, il periodo natalizio lo attiva in modo particolare. Ed ecco, si produce nel suo repertorio di momenti depressivi, crisi di ansia, difficoltà respiratorie, alterazioni dell’umore, e via dicendo.

Nel Natale / compleanno è cristallizzato il mio desiderio di poter essere figlio, spensierato, accudito, deresponsabilizzato (intendiamoci, lo sono stato quando era il momento, non è che fossi un piccolo adulto, e tuttavia qualcosa deve essermi mancato). Nel Natale / compleanno questo bambino interiore si risveglia e piange i Natali / compleanni che sente di non aver vissuto. Nei Natali / compleanni dopo il 2006 e dopo il 2013 la situazione è radicalmente peggiorata, in quanto la morte di un padre e soprattutto la nascita di un figlio (che per un milione di altri motivi è il regalo più grande che la vita mi abbia mai fatto) sanciscono senza pietà il fatto che tu non sarai mai più “figlio”, nessuno ti potrà accudire, consigliare o deresponsabilizzare, e anzi, scusa tanto, ma devi essere 24/7 “padre”, e devi essere tu ad accudire, consigliare, farti carico delle cose.

Certo, razionalmente potreste dire (me lo dico anche io spesso, non mi offendo se me lo dicono gli altri) “cazzo hai 48 anni*, non è certo l’età della spensieratezza”. Giusto, per carità. Resta il fatto che il Natale è un trigger per queste sensazioni. Il Natale mi ricorda che gli anni che restano sono meno di quelli che sono passati. Il Natale mi ricorda che non c’è nessuno a consigliarmi come fare il padre, anche se per carità, la risposta è sempre dentro di me (ma è sbagliata). Il Natale mi ricorda che i familiari ancora in vita sono anziani, e che sta a me sbattermi per cercare di fargli passare una buona giornata e non viceversa. Il Natale soprattutto mi ricorda che ho un figlio e dovrei sforzarmi di passargli passione e leggerezza, due qualità che considero fondamentali nella vita, e che dal 1 dicembre al 6 gennaio sembrano prosciugarsi completamente in me lasciando solo apatia e pesantezza (recupero gli altri mesi dell’anno, non temete).

Tutto questo sfogo di autoanalisi un po’ per far passare il tempo, un po’ per dirvi che, qualora dovesse capitare che io non risponda agli auguri o che – se spronato – vi risponda “Buon Natale un cazzo”, voi sappiate il perché.

*48 anni domani, per la precisione. Oggi ancora 47. Ho ancora il vezzo di non aumentarmi l’età se non è strettamente necessario.