MONKEY MAN: “DAI, È ONESTO”

Da giorni aspettavo il momento di andare a vedere Monkey Man di Dev Patel e dicevo al mio amico anche lui appassionato di action indiani “dai, dai che promette bene, c’è il dio scimmia Hanuman, ci sono le mazzate, c’è la vendetta ma dura solo due ore” (perché non ci sono i balletti, ndr). 

E allora cosa possiamo dire di questo film d’azione che è evidentemente un “progetto del cuore” di Patel che gira, scrive, produce e interpreta? Che è un film onesto. Onesto nel senso che è molto chiaro quali sono le sue coordinate (pari pari le origini dell’action orientale, a me ha ricordato moltissimo certi film con Bruce Lee) e che non fa troppe deviazioni.

Onesto nel senso che ci prova con tutte le sue forze e anche se non immaginavo Dev Patel come un grandissimo marzialista più o meno se la cava (siamo dalle parti di Keanu Reeves in John Wick, se non sei un combattente ma ti circondi di gente brava ce la puoi fare).

Onesto nel senso che non imbelletta di postmodernismo una storia di vendetta tremenda vendetta che è lineare e dritta come un pugno (oltre che sanguinosissima), che è il suo pregio ma anche un po’ il suo limite. Tra l’altro Patel sceglie di girare tutto con camera a mano e messa a fuoco manuale, il che rende il 70% del film un caos in cui non si capisce un cazzo perché corrono combattono urlano e svengono sempre in motion blur o fuori fuoco

Ci sono comunque dei momenti molto fighi, un combattimento all’inizio e uno alla fine molto ben coreografati, un omicidio a coltellate ma col coltello tenuto in bocca e soprattutto la classica sequenza di allenamento al suono dei tablas suonati da uno dei capi della comunità di Hijira (persone transgender considerate “intoccabili”) che salvano Patel dopo un pestaggio particolarmente duro. 

Sì, perché per tutta la prima metà del film Kid (il personaggio di Patel) le prende tantissimo: si guadagna da vivere come punching-bag umano in un ring underground di combattimenti a mani nude, poi si fa assumere come lavapiatti da una losca imprenditrice collegata con un ancora più losco capo della polizia, collegato con un loschissimo guru spirituale che hanno qualcosa a che vedere con un trauma indicibile legato a sua madre (che è morta e ovviamente va vendicata).

La seconda ora di film è un viaggio sulle montagne russe dal momento in cui Kid passa dalla modalità autodistruttiva a quella di macchina da guerra. Peccato solo per le riprese incomprensibili, ma può essere un omaggio a Headshot di Iko Uwais (The Raid, sempre di Uwais è un’altra evidente fonte di ispirazione). D’altra parte il film è pure girato in Indonesia, quindi ci sta.

IN FABRIC, IL VESTITO MALEDETTO

Secondo film girato a Croydon visto nel giro di una settimana e nuovo capitolo di un percorso visivo attraverso i film distribuiti o prodotti da A24. In Fabric di Peter Strickland è un delirio psichedelico incentrato su un vestito maledetto. Ora. Capirete che a fare un film su un vestito maledetto (che ti fa venire tipo il marciume della morte sul seno e in faccia) o vai direttamente sul trash comico, o fai una roba completamente fuori da ogni grazia di dio. Strickland va fuori dalla grazia di dio.

Del resto già Berberian Sound Studio era un film abbastanza fuori dagli schemi. Quindi: un horror ambientato negli anni ’70, che è anche una critica del capitalismo consumeristico, che è anche teatro dell’assurdo, che è anche una commedia dal sottile humor nero – a me ha fatto pensare più che altro a qualcosa di Ionesco girato da un giovane Nicolas Roeg, o Ken Russell.

Sheila è una madre single che vive col figlio adolescente (e la sfrontata fidanzata del figlio) che per andare ad un appuntamento al buio decide di acquistare un vestito ai saldi. Il vestito “rosso arteria” le viene consigliato da una commessa demoniaca che è in tutto e per tutto uguale a un manichino (parrucca inclusa) ma è viva. Il vestito è un pezzo unico ma guarda caso si adatta a qualunque taglia. Ovviamente non va a finir bene.

Nel frattempo, in una scena che sa molto di Suspiria (ma sempre con lo zampino di Ken Russell), la commessa demoniaca fa un’orgia masturbando i manichini del negozio, casualmente dotati di vulva, mentre di là dalla vetrina il proprietario del negozio si masturba anche lui in un delirio di ASMR (è un film di rumorini cric sgnic e cic ciac, vi avverto). A questo punto mia moglie se ne va chiedendomi “Scusa ma che cazzo di film è“?

Alla fine, inopinatamente, il vestito viene indossato da un altro personaggio, un tecnico delle lavatrici, al suo addio al celibato. Anche lui marcisce a contatto col vestito ma soprattutto recita in modo ieratico passaggi dal manuale di manutenzione delle lavatrici mentre le clienti tentano di sedurlo.

Assurdo, con una colonna sonora meravigliosa, totalmente senza senso, ma visivamente bellissimo.

EO È UN FILM BELLISSIMO

EO (pronuncia iiii-oooh) di Jerzy Skolimowski è un film che avevo lì da un po’ ma ogni volta che ci pensavo poi dicevo “no vabbè, il film polacco semi muto con protagonista un asinello che vaga per l’Europa con l’occhio umido magari un’altra volta”.

Finché la volta è arrivata, e devo dire che sì, è un film polacco quasi muto e quasi totalmente dedito all’osservazione dell’asinello con l’occhio umido che – proprio come nell’esplicito modello Au Hazard Balthazar di Robert Bresson – ne patisce di ogni e torna sempre sulle sue quattro zampe senza mai perdere la sua innocenza.

Il senso direi che è abbastanza ovvio, quanto fanno schifo gli uomini e quanto sono puri gli animali e in particolare gli asinelli. EO (se poi questo è il suo nome) si esibisce in un circo all’inizio del film, in una sequenza tutta virata in rosso, colore che ritorna a tratti durante il film. 

Poi una manifestazione contro l’uso di animali nel circo chiude la questione e EO si perde e inizia un viaggio picaresco tra inaugurazioni di stalle modello, passeggiate sotto i portici di una cittadina, partite di calcio e cliniche veterinarie, camion di bestiame e parcheggi abbandonati, foreste e dighe, sempre con quel suo occhio trascendente e non giudicante che sopporta le peggiori angherie (gli ultrà lo bastonano quasi a morte, un camionista lo vuole vendere per farci il salame) e osserva muto il bello e il brutto (c’è anche un omicidio splatter) dell’umanità.

A un certo punto c’è anche un robot della Boston Dynamics, buttato lì senza apparente motivo, ma soprattutto ci sono sequenze misteriose e bellissime e alla fine c’è persino Isabelle Huppert che sbrocca con un prete ludopatico. Ma perché tutto ciò? Ma che cosa ne so! (Cit). Eppure EO è un film bellissimo e vi consiglio di vederlo, a meno che la mia recensione non vi abbia scoraggiato.