ROBOT DREAMS, TRA CHAPLIN E ALLEN

Robot Dreams di Pablo Berger ha vinto l’Annie Award e il Festival di Annecy, L’European Film Award come miglior film d’animazione, è stato candidato all’Oscar… e niente, poi lì si è scontrato con dei mostri sacri. Ma è veramente uno dei film animati più belli di sempre.

Intanto è assolutamente internazionale, dato che non si parla. E poi è un “classico”, nel senso che prende moltissime situazioni da film dell’epoca del muto (Chaplin su tutti) e le declina in chiave moderna, ambientando il film in una New York anni ’80 che immerge il tutto in un bagno di nostalgia per Gen-X e Millennial, oltre che richiamare esplicitamente un’estetica da Woody Allen dei tempi d’oro.

In realtà Robot Dreams è un film pensato soprattutto per bambini, ma con easter egg, citazioni e situazioni che possono appassionare gli adulti con riferimenti a Basquiat, alla breakdance, ai Talking Heads, al CBGB e a tutta la cultura dell’East Village dove in effetti si trova la casa di Dog, il protagonista (un cane).

Dog si sente solo, e acquista per corrispondenza un amico robotico da montare. Con lui inizia a divertirsi e a vivere la vita, finché un bel giorno non vanno a Coney Island e il robot rimane un po’ arruginito e senza batteria: non riesce più ad alzarsi dal telo. Da quel momento Dog e Robot sono costretti a separarsi: la spiaggia chiude e riaprirà solo il 1 luglio successivo, unico momento in cui Dog potrà recuperare il suo amico.

Ci riuscirà? Sì e no, come si vedrà nel corso del film che racconta la vita di Dog alla continua ricerca di altre esperienze e i sogni di Robot, sempre immobile sulla spiaggia che anela a ricongiungersi con il suo amico.

Il finale è sorprendente nel suo non essere un vero e proprio lieto fine e insegna anche agli adulti qualcosa di dolceamaro sulle relazioni. Un piccolo capolavoro.

ALL OF US STRANGERS: PIANGIOMETRO A 11

All of Us Strangers di Andrew Haigh è uno studio sulla solitudine, sulla queerness, sul desiderio e sul potere dell’amore – letteralmente, dato che il tema principale è The Power of Love del Frankie Goes To Hollywood (ma a stracciare il cuore arrivano anche i Pet Shop Boys, i Fine Young Cannibals, gli Housemartins, i Blur).

La premessa è questa: Adam (Andrew Scott) è uno scrittore in depressione, che vive solo in un grattacielo semideserto di Londra dove a quanto pare l’unico altro abitante è Harry (Paul Mescal) che una sera ci prova con lui proponendo una bevuta. Adam rifiuta cortesemente. Su un piano di realtà che sembra lo stesso, ma dopo pochi minuti scopriamo che è diverso, Adam si fa prendere dalla nostalgia e torna a visitare la casetta suburbana dove viveva con i genitori 30 anni prima.

In un parco incontra un uomo che gli fa cenno di andare con lui, supponiamo per del sesso rubato dietro una fitta siepe… ma no. Quell’uomo non è quello che pensiamo. Da lì tutto prende una piega molto weird, molto giapponese (il romanzo da cui è tratto il film è giapponese, ci avrei giurato quando alla fine è apparso nei credits) e molto dolorosa.

Ci sta che tutte le recensioni che ho visto (dopo) rivelino nelle prime righe l’elemento chiave del film: si svela nei primi venti minuti, però mi spiace comunque dirvelo, ve lo vedete da soli. Adam è un uomo gay solo, con un grande trauma alle spalle e quello che vive durante le visite alla sua casa d’infanzia è come un balsamo che a poco a poco scioglie il suo dolore che – come dice lui stesso – nel tempo si è solidificato.

Nel frattempo, a Londra, Adam inizia a frequentare Harry e a trovare sempre di più in lui un compagno, un alleato, una persona con cui lasciarsi andare e di cui prendersi cura. Finché anche la sua prima vera relazione con un’altra persona prende una piega fottutamente weird. E stavolta sono cazzi.

Tutto in questo film è superlativo: i due protagonisti sono entrambi eccezionali (giova il fatto che sono i due attori che più di ogni altro fanno vacillare la mia eterosessualità), Claire Foy e Jamie Bell nel ruolo dei genitori di Adam sono perfetti, la colonna sonora è quella che vi ho detto, la fotografia e soprattutto il montaggio, ricco di effetti, sovraimpressioni, tagli strani, immergono il tutto in un’atmosfera irreale.

Inutile dire che il piangiometro va decisamente sull’11. E che è uno di quei film dal finale talmente aperto che poi la gente va a cercare gli articoli on line tipo “All of Us Strangers Ending Explained” invece di continuare a piangere come se non ci fosse un domani.

ROAD HOUSE: GUILTY PLEASURE DEPOTENZIATO

Va detto che il primo Road House (quello con Patrick Swayze) era già un bel filmazzo guilty pleasure di quelli che andavano visti schiamazzando mentre il buttafuori Dalton faceva robe esageratissime anni ’80, tipo ad esempio strappare la carotide a mani nude a uno dei cattivi. 

Questo nuovo Road House che trovate su Prime Video (direttamente lì, è un peccato e dopo vi dico perché) ha come frecce al suo arco essenzialmente la stessa sceneggiatura e lo stesso produttore (Joel Silver) ma un diverso Dalton (Jake Gyllenhaal al massimo della sua pompatura) e Doug Liman, che si diverte un casino a fare la handshake camera intorno ai pestaggi.

Allora, il nuovo Road House è comunque un film di pestaggi senza se e senza ma, ed è anche divertente, ha qualche battuta simpatica e ha in più un coccodrillo burlone. E Jake Gyllenhaal ha il carisma giusto da cagnolino bagnato che si trasforma in bestia sanguinaria. Però.

Laddove il primo Road House era semplicemente (come dicono gli ammerigani) OUTRAGEOUS anche per le varie scene di sesso e splatter un po’ gratuiti in un film che è essenzialmente un western moderno (qui ci tengono a dichiararlo almeno 11 o 12 volte nel corso del film), questo di Doug Liman sembra un po’ “anestetizzato”. Cioè, per esempio, quando ti aspetti la scena di sesso, o almeno un limone duro, Gyllenhaal si tira indietro dicendo “no… you don’t want to know me”, O comunque, generalmente, c’è un tasso di sangue minore rispetto al predecessore.

Di ossa rotte però ce ne sono parecchie. Le risse sembrano fighe, ma questo fatto di volteggiare intorno alle mazzate non fa capire benissimo i combattimenti. Comunque, la storia la sapete, e ci sono anche un paio di apparizioni fighe, tipo Post Malone all’inizio, nel ruolo del supercampione di lotta di strada che appena vede arrivare Dalton sul ring dice “col cazzo” e sparisce (ottima presentazione di Dalton senza nemmeno farlo combattere) e ovviamente il pazzo irlandese pompatissimo che gli scagliano contro nella seconda metà del film, che è un po’ il boss finale e se non ho capito male è letteralmente un campione UFC (Conor McGregor).

Ecco, quando entra in scena l’irlandese pazzo diventa chiaro che Road House non è tanto un western, quanto un cartone dei Looney Tunes, dove tutti si spezzano le ossa e si fanno esplodere ma tanto poi nella scena dopo sono di nuovo lì, al massimo ingessati (a parte il tizio del coccodrillo). Quindi, insomma, è anche divertente, ma preferivo il primo.

Ah, secondo me avrebbe meritato distribuzione in sala, perché film così vanno visti in compagnia schiamazzando e tirando i popcorn allo schermo. Sul divano di casa fa un po’ strano.