ANIMAZIONE PANDEMICA: LUCA, RAYA E GLI ALTRI

Messa così sembra che abbia passato giugno a guardare cartoni su Disney+. Non è stato proprio così, ma insomma, alla fine si avvicina abbastanza alla verità. Anche perché poi per esempio Luca l’ho già visto 5 volte, tre in italiano e due in inglese. Son cose che capitano quando hai una Creatura in casa. Comunque, via alle danze.

LUCA (Enrico Casarosa, 2021)

Cosa dire di Luca se non che è il film estivo perfetto? Un film che inizia con una ventina di minuti “in fondo al mar” che non ti aspetti perché tutti i trailer erano concentrati su Luca bambino umano e sulla cittadina ligure di Portorosso più che sulle profondità del mar Ligure. E ti viene in mente Alla ricerca di Nemo (i banchi di pesci), La Sirenetta (la collezione di oggetti umani), per poi trasformarsi poco a poco in un mix tra Chiamami col tuo nome (solo idealmente, per la scoperta di sé attraverso gli occhi dell’altro), Le avventure di Huckleberry Finn e Pinocchio (esplicitamente citato). Delicato, comico, malinconico, ricco di citazioni disseminate qua e là (la foto di Mastroianni, il poster di La Strada, I soliti ignoti in un televisore, le canzoni che fanno tanto Italia del boom), Luca celebra l’amicizia intensa – è evidentemente un bromance – la scoperta di sé, della diversità, del sentimento vero che ti porta a volere solo il bene dell’altro. OK, in effetti è molto simile a Chiamami col tuo nome. Senza pesche, però. Comunque: mille sono le cose che lasciano a bocca aperta, dalla ricostruzione della cittadina ligure immaginaria eppure così verosimile, i sogni di Luca così vividi eppure così cartooneschi, i disegni dei titoli di coda e alcuni personaggi secondari come la nonna e lo zio dagli abissi (Sacha Baron Coen) protagonista anche dell’immancabile scena post-credits. Il character design fa sembrare tutti i personaggi come pupazzi di plastilina animati in stop motion quando invece è CGI – questa cosa dà un calore particolare al tutto, e tra le nuotate che danno quella sensazione di libertà, il gelato, i temporali e tutto, Luca rappresenta perfettamente l’estate della mente, quella che non dimentichiamo mai. Quella dove abbiamo scoperto tutti l’amicizia. Magari non sarà un capolavoro sorprendente e filosofico come Soul, ma è un film che scalda il cuore. E nella scena finale lo scioglie. Oh, proprio come Chiamami col tuo nome! #recensioniflash

RAYA AND THE LAST DRAGON (Carlos Estrada, Don Hall, 2021)

Qualcuno si ricorda di Atlantis l’impero perduto? Si tratta di un Classico Disney della cosiddetta “epoca sperimentale” un po’ dimenticato, un po’ sottovalutato anche all’uscita (design troppo Gainaxx, storia troppo Nadia e il mistero della pietra azzurra, insomma, dal Giappone non erano contenti). Eppure per me – che comunque sono un amante del musical senza se e senza ma – a suo tempo fu una folgorazione: un film Disney senza canzoni, serio, con tematiche di avventura, mazzate e pericolo vero. Fast forward esattamente a venti anni dopo: Raya e l’ultimo drago rischia di inaugurare una nuova epoca Disney – e di fatto lo fa, siamo già in una New Era dopo il Revival terminato con Oceania. Ma ci pensate, dopo Oceania sono usciti solo due sequel, Raya è la prima storia “nuova” da cinque anni a questa parte. E lo sforzo per ricombinare fiaba, mito, wuxia, carinerie Disney e arti marziali si sente tutto e direi che è abbastanza ben riuscito ed amalgamato. Non sto a dirvi la trama di Raya tanto l’avete visto tutti prima di me perché siete degli impazienti dilapidatori di soldi e non degli oculati risparmiatori come me che col cazzo che spendono soldi oltre l’abbonamento per l’accesso VIP. Raya è come Mulan e Pocahontas più che come Elsa o Moana/Vaiana, il film è un action fantasy abbastanza serio (uno dei registi arriva di Big Hero 6) e rappresenta se vogliamo la compiuta marvellizzazione della Disney – dopo la disneyzzazione della Marvel, ci voleva. Fotografia che credo sinceramente sia la migliore in assoluto vista in un film Disney, film lungo ma con l’impressione che magari alcuni momenti di pausa qua e là avrebbero giovato alla narrazione (un po’ meccanica stile livelli di gioco con boss sempre più pericolosi), combattimenti coreografati alla perfezione, draghi (non Mario) un po’ troppo plush da edicola ma ci sta, anzi immagino sia voluto per il merchandising. La visione familiare è purtroppo funestata dal fatto che il mio sensibile figliuolo vuole le canzoni, i duetti e l’ammmore e ha orrore dei combattimenti, però ha detto “se togliamo tutte le parti dei combattimenti è bello anche se non ci sono le canzoni”. Amante del musical anche lui, capiteci. #recensioniflash

INSIDE (Bo Burnham, 2021)

Credo di aver appena finito di vedere, su Netflix, una delle cose più geniali e coinvolgenti mai viste sul piccolo schermo. Passo indietro. Per me fino ad oggi Bo Burnham era un oscuro regista indipendente che aveva girato nel 2018 un film eccezionale (Eighth Grade) e che più di recente aveva recitato in Promising Young Woman. Non sapevo assolutamente nulla dei suoi trascorsi come youtuber prima e come stand up comedian poi. Dice lui stesso che dopo il suo ultimo comedy tour nel 2016 aveva cominciato a soffrire di attacchi di panico sul palco e che per questo si era dato alla regia, alla recitazione, alla scrittura. A gennaio 2020, dopo un percorso di terapia, si sentiva pronto a tornare sulle scene, ma poi “è successa una cosa divertentissima”. Costretto in casa dal Covid come tutti noi, ma con una bomba inesplosa di talento dentro rispetto a tutti noi, Bo Burnham utilizza l’anno di lockdown per scrivere, girare, musicare, fotografare, interpretare e montare questo Inside. Un film di quasi due ore che è un comedy special sui generis, tutto girato nella stanza di Burham (e si vede chiaramente il suo background da youtuber) e che potrei definire come un misto tra un musical alla Bob Fosse, un film di Lynch, una raccolta di videoclip esilaranti però scritti da Charlie Kaufman, un light show psichedelico, una seduta di autoanalisi bergmaniana. Burham fa ridere in un momento in cui non c’è un cazzo da ridere, analizza tutti i luoghi comuni della contemporaneità (eccezionali i pezzi sull’Instagram delle donne bianche, sulla videochiamata con la madre, sul sexting, sul senso di colpa del maschio bianco etero, su Jeff Bezos, sull’invenzione di Internet, il reaction video del reaction video, la parodia dello streamer di Twitch) e al tempo stesso riesce ad infilare monologhi sulla depressione, i pensieri suicidi, la salute mentale, l’isolamento e non taglia nemmeno i momenti in cui sclera o piange davanti alle videocamere. Salvo poi lanciarsi in pezzi synthpop in cui si riprende l’ombelico in 8K, in un continuo palleggio tra critica della società dello spettacolo e immersione totale in essa, il tutto con una padronanza del suo one man show che mescola luci, proiezioni, musica e monologhi in modo impeccabile, diverso da qualsiasi altro stand up comedian possa venirvi in mente. Inside mi ha fatto pensare molto, più che altro perché risuona con tutte le mie ossessioni e i miei pensieri del periodo e direi che finora è la cosa più vicina allo “spirito del tempo” che potete esperire. #recensioniflash

THE GENTLEMEN (Guy Ritchie, 2020)

Ieri sera, ospite sul mio divano Lorenzo Corvi, abbiamo preso visione di un film che nessuno dei due aveva ancora visto su Prime. Ci siamo subito trovati d’accordo perché – in omaggio alle regole che vogliono l’ospite a proprio agio – io gli ho proposto un qualche film francese un po’ pesantino e del genere che un tempo si sarebbe chiamato cinéma vèrité, ma lui mi ha spiazzato proponendo di vedere qualcosa di molto zarro per “spensierarsi”. Alla fine la convergenza è arrivata con The Gentlemen di Guy Ritchie. Ora, a parte il fatto che un film che presenta degli abiti come quelli in foto va premiato a prescindere e che sto già compulsando Amazon per comprarmi la tuta di Colin Farrell (o anche solo il cardigan smorto di Charlie Hunnam), devo dire che per essere il “solito gangster movie inglese” con una sfilza infinita di personaggi da ricordare e situazioni al limite del grottesco – insomma una roba che sappiamo a memoria dalla metà degli anni ’90 – The Gentlemen è molto godibile. Guy Ritchie è uno di quei registi che soffre del complesso che possiamo chiamare “il mio primo film è un fottuto capolavoro e dopo non sono mai riuscito a fare nulla all’altezza”, ma solo il fatto che dopo Aladdin e King Arthur sia tornato al milieu della mala londinese è qualcosa di buono. Ci sono Hugh Grant che fa il viscido, Matthew McCoso che fa il bello e dannato imprenditore della cannabis, tanta roba, tanti intrecci, poche risate (se voleva essere una gangster comedy). Un po’ freddino e calcolato, alla fine dei conti. Però c’è Michelle Dockery, e ci sono le tute di Colin Farrell. Ah, e immagino che doppiato faccia cagarissimo (in originale la cosa più simpatica sono proprio le voci). #recensioniflash

MEET THE ROBINSONS (Stephen J. Anderson, 2007)

C’è una storia strana e particolare dietro all’unico Classico Disney che non avevo mai visto in vita mia, e che stasera abbiamo deciso di vedere all in the family, quasi 15 anni dopo la sua uscita. Si tratta di Meet the Robinsons, del 2007, e il motivo per cui non l’ho mai veduto è presto detto. Non so quanto abbiate familiarità con le “epoche Disney” (c’è l’età dell’oro, quella d’argento, quella di bronzo, il medioevo Disney, il rinascimento e poi, a partire dal 2000 circa, quella che venne chiamata “età della sperimentazione”). La sperimentazione ha portato inizialmente a dei capolavori (secondo me) che hanno avuto pochissimo successo di pubblico (es. Lilo e Stitch, Le follie dell’imperatore, Atlantis, Koda fratello orso) e infine, nello sclero di inseguire le mode, ad uno dei film animati più orribili di tutti i tempi, Chicken Little. Bruciato da Chicken Little (che fa veramente, ma veramente cagare a spruzzo), mi ero rifiutato di vedere I Robinson – Una famiglia spaziale, terrorizzato dal look vagamente Jetsons del film, dal fatto che tra i doppiatori ci fossero Carlo Conti e Giovanni Muciaccia e non ultimo dal fatto che in quel periodo eravamo tutti per la Pixar, che aveva appena rilasciato Gli Incredibili e si apprestava a sfornare uno dei suoi capolavori assoluti, Ratatouille. Ma ecco arrivare la storia strana dei Robinson. Il film è prodotto da John Lasseter. Ma quindi, mi domando, l’ha prodotto per affossarlo? No! Vado a vedere i dati del box office e I Robinson non è nemmeno criticato male! Cosa è successo? La chiave del film sta nell’altro produttore esecutivo, che è in realtà un soggetto che da fuori ha influenzato Disney, Pixar, Blue Sky, Illumination e molta dell’animazione del nuovo millennio. Si tratta di William Joyce, autore del libro da cui i Robinson è tratto, illustratore notissimo al grande pubblico dallo stile un po’ retrofuturista che era esploso con la serie per bambini Rolie Polie Olie e che solo due anni prima aveva prodotto (e realizzato il character design) per Robots della Blue Sky (infatti i robot dei Robinson sono identici a quelli di Robots, ma questa è un’altra storia). La storia dei Robinson è… diciamo gradevole. Bambino orfano superintelligente inventa cose. Ad un certo punto il tutto si trasforma in una sinistra e psichedelica versione animata di Ritorno al futuro incrociato con Matrix. Il bambino viene trasportato nel futuro e si trova ad interagire con una famiglia di pazzi (i Robinson) e a doversi guardare le spalle da un cattivo delirante in bombetta nera che sembra modellato su Hans Doofenschmirtz (il delizioso scienziato pazzo di Phineas e Ferb). Ci sono mille sottotrame, c’è la ricerca della mamma, il furto di una macchina del tempo, la dominazione del mondo da parte delle bombette robotiche, a un certo punto c’è anche un inseguimento con T-Rex. Troppa roba. Lo slapstick di Le Follie dell’imperatore appiccicato alla lacrima facile di Bianca e Bernie. Ma in un modo tutto sommato originale. L’impressione del 2007 però è ancora viva: il character design, pur essendo anni luce meglio di quello di Chicken Little è assolutamente deludente. Mentre Brad Bird faceva Ratatouille, qui siamo ancora ai livelli di Toy Story 1. Fortunatamente l’anno dopo la Disney si rifà con Bolt, il suo primo vero film BELLO in CGI. I Robinson almeno sono serviti ad imparare qualcosa. #recensioniflash