ANIMAZIONE DURANTE LE FESTE

Ecco tutte le #recensioniflash di dicembre, contraddistinte da un abnorme consumo di film di animazione un po’ perché con un bimbo in casa è inevitabile, un po’ perché sì, l’animazione è da sempre il mio genere preferito oltre all’horror e al musical – i tre generi che più di ogni altro si staccano completamente dalle leggi della fisica, della logica e della natura. La realtà è sopravvalutata, noi vogliamo solo la fantasia. Ma comunque ci sono almeno due film artsy in bianco e nero che fanno parte del listone di fine anno in altissime posizioni tra i film migliori del 2020.

CALAMITY (Rémy Chayé, 2020)

A Torino è di nuovo tempo di Festival. Dopo il TFF (tanti anni fa noto come “Cinema Giovani”) arriva il SottoDiciotto Film Festival (sempre su MyMovies in streaming, ma gratis, ripeto GRATIS). Questo è il vero festival dei giovanissimi, e infatti è popolato da corti realizzati da studenti di scuole medie e superiori, film d’animazione e film per famiglie. Io e la Creatura inauguriamo stasera con Calamity – Une enfance de Martha Jane Cannary, già vincitore del miglior film ad Annecy a giugno, dove però avevo visto solo un estratto di pochi minuti e un corposo backstage (i produttori, che teneri, pensavano di farlo uscire in sala di lì a poco). Calamity è un film bellissimo e “rinfrescante”, quanto può esserlo un lungometraggio di animazione che non è né Disney/Pixar/Dreamworks, né un anime. La tecnica, la grafica, le linee, il disegno, i colori, l’animazione stessa, sono qualcosa di inedito per chi è abituato all’animazione mainstream. In tutto ciò Calamity è comunque un film di animazione tradizionale che però racconta una storia potente, quella di Calamity Jane. O meglio di una bambina che da grande diventerà Calamity Jane. Siamo nel 1863 e il convoglio di carri di cui fa parte la famiglia Cannary è diretto in Oregon. Il set è quello del western più classico, la colonna sonora (bellissima, peraltro, un folk bluegrass orchestrale che fa pensare a tratti a Morricone) accompagna immagini di praterie, cavalli, bufali, canyon, fiumi in piena, accampamenti. In tutto ciò si muove Martha Jane, una bambina che – a causa di una serie di “incidenti” familiari – prende gusto ad imparare le cose “da maschi”: Mette i pantaloni, cavalca, impara a usare il lazo e a guidare il carro, rendendosi sempre più invisa a tutta la comunità che sembra uscita da The Handmaid’s Tale, ma ehi, siamo nel 1863. Martha Jane per fare la lotta con un ragazzo si taglia i capelli corti (per non farsi afferrare dalla chioma) e poi per una serie di equivoci viene accusata di furto e scappa per rincorrere quello che crede essere il vero ladro. In quattro mesi da sola incontra amici, nemici, mentori e impara a cavarsela da sola e ad autoaffermarsi travestendosi via via da garzone, minatore, ragazza “bene”, soldato, e facendo confondere, incazzare e anche innamorare quelli che incrociano la sua strada. Alla fine diventa una leader accettata da tutta la comunità (la stessa comunità che all’inizio del film la schifava in quanto femmina). Nota folkloristica: il film non è doppiato perciò è in francese coi sottotitoli. Abbiamo ormai fatto un piccolo passo avanti, nel senso che i sottotitoli brevi la Creatura li legge al volo, per quelli lunghi pretende ancora lo chuchotage paterno che gli fa la traduzione simultanea nell’orecchio. Adesso quindi ha imparato “Tête de bouse” (testa di cacca) ed è rimasto deliziato dal fatto che i pionieri raccoglievano appunto le bouses dai campi per usarle come combustibile nei falò notturni. Recuperatelo che vale la pena. #recensioniflash #sottodiciotto

SWEET THING (Alexandre Rockwell, 2020)

Il Sottodiciotto prosegue con due film per me inediti di Alexander Rockwell. Sì, volevo vedere Mank su Netflix, ma il problema dei film festival on line è che ti tengono su i film per una finestra di ore molto ristretta, quindi. E poi io di Alexander Rockwell conoscevo solo In The Soup e l’episodio di Four Rooms (quello che tutti si ricordano di Tarantino e Rodriguez ma c’erano anche Rockwell e Sanders). Comunque. Una folgorazione. Lo so che lo dico spesso, ma è così, fatevene una ragione. Ieri c’erano disponibili Little Feet del 2013 e Sweet Thing di quest’anno, il suo ultimo film. Bisogna parlarne insieme perché in un certo senso sono l’uno il seguito dell’altro. Ma bisogna partire dall’inzio. Rockwell è un regista indipendente di quelli puri, cinefili, che vogliono girare in pellicola e che sono alle prese con una cronica mancanza di mone. Entrambi i film li ha finanziati con Kickstarter, per dire. Beh l’ultimo è prodotto anche dalla ex moglie, Jennifer Beals, e da Sam Rockwell, che non è parente ma amico… Vabbè, divago. Little Feet del 2013 è un piccolo (64 minuti) film che Rockwell ha deciso di fare in completa autonomia dopo un ultimo tentativo di “film commerciale” del quale non era rimasto soddisfatto. Tutto in famiglia: lui regista, la figlia Lana (all’epoca 10 anni) sceneggiatrice e protagonista, il figlio Nico (all’epoca 4 anni) coprotagonista. È la storia di due bambini orfani di madre e con il padre (sempre Rockwell) che lavora tantissimo per mantenerli e non si vede quasi mai. I bambini hanno due pesci rossi, quando uno di questi muore decidono di portare l’altro nel fiume e poi al mare “per fargli conoscere tanti amici e non farlo stare depresso”. Vengono aiutati da un vicino di casa messicano e organizzano un viaggio on the road tra Echo Park e Venice Beach un po’ a piedi, un po’ in bus, con una colonna sonora meravigliosa e un bianco e nero che urla “cinema indie anni ’80 ’90” da ogni inquadratura (infatti ogni volta che nel film compaiono cose di oggi come cellulari, codici QR o cose così fanno un effetto straniante). Sette anni dopo e con qualche soldo in più, Rockwell torna con Sweet Thing, un pratica un sequel/reboot/remake un po’ più gonfiato e un po’ più drammatizzato della stessa storia. Capolavoro. Lana adesso ha 17 anni e Nico 11, vedere gli attori (bravissimi) ora cresciuti fa un po’ l’effetto Boyhood e un po’ l’effetto Antoine Doinel (e non è un mistero che Rockwell si ispiri moltissimo a Truffaut e che abbia una certa ossessione anche per Jean Vigo). Si tratta sempre dell’epopea di due fratelli con padre anziano e in qualche modo incapacitato e mamma assente (stavolta perché ha lasciato la famiglia e si è messa con un buzzurro, e l’attrice è la vera madre dei ragazzi nonché moglie attuale di Rockwell). Quando il padre va in rehab, Lana (che qui si chiama Billie in omaggio a Billie Holiday che appare in qualche scena da sogno) e Nico devono stare dalla madre, ma il nuovo compagno della madre è veramente poco raccomandabile. Tematiche pesantissime affrontate con la leggerezza e la resilienza dei bambini, che – anche qui – con l’aiuto di un vicino di casa (uno strepitoso Jabari Watkins) riusciranno a fuggire e tornare infine dal padre dopo molte disavventure. Al sottodiciotto Rockwell presentava i suoi film parlando soprattutto del suo amore per Buster Keaton. Diciamo che si vede tutto. Recuperateli in ogni modo possibile. #recensioniflash

WOLFWALKERS (Tomm Moore, 2020)

Buongiorno, sono Pietro e sono qui per parlarvi del miglior film di animazione del 2020, uscito solo da pochi giorni e disponibile su AppleTV o se no <cough>su YTS<cough>. Si tratta di WolfWalkers, di Tomm Moore (acclamato regista di The Secret of Kells e The Song of the Sea). Avrete già capito che si tratta di Irlanda, si tratta di leggende tradizionali e si tratta di animazione tradizionale 2D dai tratti spigolosi simili a una xilografia e dalle linee di contorno sfumate, mobili ed espressive. Ma WolfWalkers è ancora più bello dei film precedenti. Forte di una palette di colori autunnale coerente per tutto il film e di una musica che come sempre è manna dal cielo per gli amanti dell’Irlanda, il film – basato sulla leggenda delle “donne che corrono con i lupi” – affronta temi importanti e profondi, al tempo stesso accompagnandoci in un viaggio ipercinetico e sinestetico tra suoni, vibrazioni, odori, lampi di luce e di buio. Siamo nel 1630: Robyn è figlia di un cacciatore, Maebh è figlia di una wolfwalker. Dovrebbero essere naturalmente nemiche, ma diventeranno inseparabili. A causa di un morso di Maebh anche Robyn assume la capacità di mutare in lupo durante il sonno, e scopre la tremenda trama del Lord Protector di Kilkenny: a maggior gloria del Signore, egli vuole abbattere tutta la foresta (e con essa la tana dei lupi) e trasformare le terre in campi coltivati. A tal scopo ha catturato la madre di Maebh e vuole sterminare tutti i lupi. Lord Protector è un cattivo della misura di Frollo nel Gobbo di Notre Dame, per capirci, e il padre di Robyn, che non capisce tutte queste storie di wolfwalker e bambine lupo serve il suo padrone ciecamente, chiedendo anche alla figlia di sottomettersi. Alla fine sarà lui stesso a ribellarsi all’ordine costituito, ma non diciamo come. WolfWalkers fa pensare come atmosfera un po’ al sottovalutato classico Disney Red e Toby, un po’ a Wolf Children di Mamoru Hosoda, è una gioia assoluta per gli occhi e per le orecchie ed è un film perfetto da vedere in compagnia di grandi e piccini. Non perdetelo, ché magari esce anche in sala (si spera). #recensioniflash

MANK (David Fincher, 2020)

E alla fine ho visto anche Mank, il nuovo film di David Fincher su Netflix, che poi tanto nuovo non è se pensiamo che Fincher senior scrisse questa sceneggiatura negli anni ’90 ed è dal 1997 che il figlio David tenta di portarla in sala. Ora, fughiamo subito un dubbio: Mank è bellissimo, uno dei film migliori visti quest’anno. Ma Mank è anche un film estremamente impegnativo che richiede – a mio avviso, poi confutatemi pure – una certa preparazione sia sulla storia del cinema come arte che sulla storia del cinema come industria con un suo impatto politico e sociale. Non guasta anche essere un tantino versati in storia americana in generale. Perché dico questo? Non voglio intimorire il potenziale spettatore, ma affrontare un film di più di due ore che si immerge completamente nell’estetica anni ’30-’40 che è l’oggetto del suo racconto, presentato in un bianco e nero a range dinamico altissimo, con un sonoro adattato agli standard dell’epoca e magari non capire una mazza di quello che viene raccontato e di chi è chi può essere un problema. Io stesso pensavo di rivederlo almeno un’altra volta per capire meglio. Non tanto per la storia di Quarto potere (la principale linea narrativa di Mank è quella di Herman Mankiewicz che nel 1940 scrive il suo capolavoro, la sceneggiatura di Citizen Kane di Orson Welles), quanto per la questione degli anni ’30 in cui Mankiewicz lavorava come sceneggiatore per Louis B. Mayer, Irving Thalberg e una serie di personaggi famosi dell’epoca, per il suo rapporto di amore/odio con William Randolph Hearst, che sarà la base del personaggio di Charles Foster Kane in Quarto potere, per le sfumature politiche relative alle elezioni californiane del 1934 e di come il cinema abbia coscientemente interferito con esse. A un “profano”, Mank sembrerà un film diretto magistralmente, con grandi prove d’attore, ma un po’ freddo e respingente. Lo spettatore “informato” lo troverà un labirinto di rimandi incrociati e – comunque – un perfetto ingranaggio che come in un rapporto della parte con il tutto rappresenta la “macchina cinema” nel suo complesso. Ah, e poi c’è anche la spiegazione più bella di cosa potrebbe voler dire “Rosebud” nel film di Welles. #recensioniflash

SOUL (Pete Docter, 2020)

OK, quindi: Soul di Pete Docter, su Disney+.
Pete Docter è un po’ il Frank Capra della Pixar, e Soul in un certo senso è il perfetto film di Natale nella misura in cui lo è anche La vita è meravigliosa (rivisitazione della vita dal punto di vista di un anima fuori dal corpo). Un risultato per molti versi eccezionale che mette in mano al regista di Up e Inside Out il film più ambizioso finora realizzato da Pixar (non riesco a immaginare il pitch per questo film, della serie “è la storia di un musicista jazz sfigato di mezza età che cade in un tombino e finisce in una dimensione parallela”… vabbè). Allora, leviamoci subito la trama: Joe Gardner (Jamie Foxx) è il musicista di cui accennavo. La sua vita è dipinta come tendenzialmente scialba finché non ha l’occasione di suonare live con una sassofonista di prima categoria. Joe è talmente eccitato e distratto che cade in un tombino, muore e finisce su una “scala per l’aldilà” (decisamente simile a quella di Scala al Paradiso di Powell e Pressburger, il che fa capire che i riferimenti di Docter sono sottilmente e fottutamente cinefili). Joe però non ci sta, vuole tornare a vivere per suonare il suo grande concerto e così si ritrova per caso in una sorta di limbo in cui stanno le anime novelle che ancora devono formarsi una personalità, viene accoppiato a 22 (Tina Fey, un’anima che non ha alcun interesse a vivere sulla terra in forma umana) e da lì si sviluppano le disavventure incrociate dei due, tra una classica dinamica da buddy movie e una serie di gag che – dal punto di vista puramente comico e di animazione – elevano Soul a livello dei migliori Pixar (penso ad esempio a Ratatouille).
Soul è ovviamente cerchiobottista come tutti i film Pixar, nel senso che per contratto deve essere accattivante per bambini e adulti. Solo che stavolta si spinge molto di più sul lato adulto, con la messa in scena di un METAFORONE™️ che a volte risulta un po’ farraginoso. Ma, come in Tenet, non dobbiamo concentrarci sui dettagli, solo andare con il flow. E che flow. Il film è in molti punti un’improvvisazione jazz, la colonna sonora è di tutto rispetto (scommetto che non vedremo mai più Trent Reznor e Atticus Ross comparire nei titoli di coda di un film Pixar) e per la parte jazz dietro ci sono personaggi del calibro di Herbie Hancock. Solo per dire. Il problema – se di problema vogliamo proprio parlare – è che Soul sembra tre mediometraggi (con stili e obiettivi diversi) compressi in un film unico, e a tratti la magia non riesce. C’è il film “adulto” sulla vita di Joe a New York, con il piglio di una commedia anni ’80-’90 di quelle con Eddie Murphy (parolacce escluse). C’è il film onirico con le anime dell’antemondo e i guardiani bidimensionali e picassiani, tutto fuzzy e coloratissimo, con incursioni nella psichedelia beatlesiana (tutte le parti con il veliero delle anime “in trance”). E c’è il buddy movie di Joe e 22 che tornano sulla terra in un modo che non sveliamo, ma che porta alle gag migliori del film e che secondo me alla fine è quello che funziona meglio. Insomma, per me Soul soddisfa, stupisce e incanta, ma ogni tanto (solo ogni tanto) ti chiedi se abbia veramente un’anima. Ah poi vabbè c’è il MESSAGGIO™️ che la vita non deve avere uno scopo, deve solo essere vissuta. Perfetto, ma tanto i bambini se ne fottono, e io magari mi leggo Yogananda invece di sentirlo da Pete Docter. #recensioniflash

TROLLS WORLD TOUR (Walt Dohrn e David P. Smith, 2020)

Perdonatemi, sono le feste, siamo in zona rossa, ho dovuto vedere Trolls World Tour che nel primo lockdown ero riuscito ad evitare nonostante come Mulan e come Tenet fosse uno dei film chiave per capire il futuro del cinema (LOL). Comunque sia.
Se vi ha fatto cagare Trolls vi farà cagarissimo Trolls World Tour. Se invece il film originale per voi aveva un suo perché (e in effetti è il film più gaio della storia del cinema di animazione), forse troverete qualcosa di interessante (almeno visivamente) in Trolls World Tour. La regina Poppy e il suo potenziale fidanzato costantemente friendzonato Branch scoprono che il loro regno è solo UNO dei tantissimi regni di troll che confinano con loro. Loro sono i Pop Trolls ma (tenetevi forte) ci sono anche i Techno Trolls, gli Hard Rock Trolls, i Country Trolls, i Funk Trolls, i Classical Trolls, gli Smooth Jazz Trolls, gli Yodel Trolls, i K-Pop Trolls e ovviamente i Reggaeton Trolls. Non capisco perché non ci fossero i Cool Jazz Trolls ma va beh. Comunque ogni tribù ha la sua musica e odia quella degli altri, la regina Barb degli Hard Rock Trolls vuole conquistare tutti i regni in gran stile Mad Max Fury Road mentre Poppy ovviamente vuole unire tutti in un abbraccio universale di arcobaleni e gayezza. Indovinate chi vince. Semplice semplice, molto colorato, Trolls World Tour è pieno di musica e di strizzate d’occhio (la regina dei Country è Kelly Clarkson, il re dei Funk è George Clinton) e di cagate allucinanti (l’Hip Hop è visto “semplicemente” come una sottobranca del Funk che va bene ma… boh. L’unica cosa è che il ruolo di cattivi del film io l’avrei dato ai Reggaeton Trolls, perché è la loro la musica che sta contagiando ogni genere e rompendo il cazzo a livello globale. Detto ciò, auguri. #recensioniflash